Nel contesto della Spagna sotto il regime franchista del XX secolo, il rinomato regista surrealista Luis Buñuel, nato il 22 febbraio 1900, ha trascorso oltre quarant’anni in esilio volontario. In un regime dittatoriale fortemente influenzato dal fascismo, l’emigrazione era considerata la decisione più prudente per gli intellettuali, privati delle fondamentali libertà di espressione e stampa.
Luis Buñuel : l’ennesimo rivoluzionario destinato alla martirizzazione
Ogni epoca storica alberga i propri perseguitati, molti dei quali a distanza d’anni vengono rivalutati e martirizzati. In tempi odierni il cristianesimo è la religione più praticata al mondo, malgrado ciò pare che la crocifissione del Cristo non sia mai stata intesa a dovere.
Il rammarico provato da Ponzio Pilato nel mito cristiano vien interpretato come un caso isolato dalle circostanze di tutti i giorni. Piuttosto d’accettare la lettura convenzionale della morte del figlio di Dio, bisognerebbe accorgersi innanzitutto dell’esecuzione di uno spirito libero e rivoluzionario.
Nella Spagna franchista del XX secolo è la volta di Luis Buñuel: regista surrealista di fama mondiale nato il 22 febbraio 1900, ha trascorso più di quarant’anni d’esilio volontario. D’altra parte, in un regime dittatoriale profondamente ispirato al fascismo, emigrare era la scelta più saggia che potessero fare gli intellettuali, privati delle essenziali libertà di parola e di stampa.
“Luis Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe” di Salvador Simó sarebbe dovuto uscire oggi nelle sale italiane; le recenti disposizioni del governo sul coronavirus hanno bloccato la programmazione. A priori sarebbe opportuno ricordare uno dei maggiori cineasti della storia – l’ennesimo artista diseredato, emarginato dalle masse e dalle autorità stesse. “Un contadino strappato anzitempo alla sua terra.”
Dall’educazione religiosa alla realizzazione surrealista
“Ho avuto un’infanzia agiata, oziosa, senza problemi,” rivelò il suddetto in un’intervista. “Vita di campi, di giochi, di piccoli e innocui passatempi.” La sua visione tanto drastica e provocatoria era da ricondursi all’educazione impartita al collegio dei gesuiti, caratterizzata da una sorveglianza invadente oltre che da rigidi regolamenti. “Il tutto si risolveva con scappatoie immaginative, eroticamente immaginative.”
Luis Buñuel ebbe dunque da imparare dall’esperienza: ne derivò una lotta perpetua e mai trascurata per la libertà, da lui definita un fantasma. Una libertà irraggiungibile per via dei dogmi oppressivi imposti dalla religione – difatti, l’anticlericalismo sarà una costante nella sua filmografia.
Mentre studiava lettere e filosofia in una facoltà a Madrid, Luis Buñuel conobbe Salvador Dalì. Sbocciò un gruppo fraterno più ampio, animato dagli incontri notturni indirizzati al confronto e alla lettura di poesie. L’anticonformismo degli aspiranti artisti suddetti non poté che condurli a Parigi, fresco focolaio del movimento surrealista.
Nato in principio come movimento artistico, negli anni a venire la dottrina menzionata s’estese alla letteratura e alla cinematografia. I surrealisti videro nell’amore il cardine della vita, perseguibile per mezzo della rottura dalle convenzioni.
Il bivio tra il conscio e l’inconscio, ricorrente nel surrealismo, fu palesemente influenzato dalla psicanalisi di Sigmund Freud. L’aspirazione alla ribellione contro le istituzioni, invece, trovò stimolo nella rivoluzione proletaria auspicata da Karl Marx – non a caso svariati esponenti del surrealismo all’epoca abbracciarono il comunismo e l’anarchismo.
In tutto ciò persiste l’ennesimo paradosso: il pioniere del surrealismo fu ereditario di un’educazione borghese e cattolica. Dinanzi a una simile occorrenza, viene in mente quanto dichiarato da Pier Paolo Pasolini in merito ai giovani contestatori di Valle Giulia nel Sessantotto, quando parlò di “figli di papà che si rivoltarono contro i papà.” A priori non vanno trascurati i contributi significativi alla storia e all’arte per mano di soggetti talvolta contraddittori ma spinti dall’ambizione di rinnovo, di creatività e di vita.
La coppia Luis Buñuel-Dalì: dalla coesione alla separazione
L’annessione del percettibile e dell’impercettibile giovò alla realizzazione di uno dei primi cortometraggi surrealisti: “Un chien andalou.” La celebre scena dell’occhio tagliato col rasoio non conobbe alcuna censura, dunque il pubblico accolse con favore Dalì e Luis Buñuel, prima che quest’ultimo passasse a una provocazione più audace della borghesia e delle istituzioni.
Già agli antipodi della produzione de “L’Age D’Or“ i due colleghi minacciarono uno scisma sul piano intellettuale. In tutto ciò venne a mancare il diretto coinvolgimento di Dalì, poiché egli dovette dare priorità alle proprie difficoltà economiche. Comunque il suddetto continuò a scrivere lettere all’amico, riferendogli idee in merito al lavoro presumibilmente condiviso; Buñuel, malgrado ciò, ignorò le indicazioni suggerite e portò a termine il progetto come meglio credette personalmente.
La realizzazione de “L’Age D’Or” coincide per convenzione alla rottura definitiva tra i due maestri del surrealismo. L’episodio avvenuto alla proiezione del film, invece, rivela le brutte conseguenze di una scelta tanto drastica: un gruppo di estremisti irruppe nella sala e distrusse i quadri surrealisti in essa esposti. In seguito gli ambienti culturali considerarono la pellicola “un intento bolscevico volto ad imputridire le fibre morali del paese.”
Ciò rappresentò un buon pretesto per vietare l’opera in tutto il mondo e per decine d’anni. In altre parole, “L’Age D’Or” fu ufficialmente uno scandalo. I borghesi, specie gli uomini di destra, si rivelarono particolarmente permalosi quando videro Buñuel maneggiare i concetti della religione, della famiglia e del patriottismo con tanta maestria, tendenzialmente irriverente.
Tra parentesi: nell’ambito dell’amore libero e dell’ironia diretta agli aristocratici, si potrebbe relativamente supporre che il suddetto abbia in qualche misura anticipato alcune delle tematiche più care al grande Fabrizio De André.
Un’interpretazione del capolavoro di Luis Buñuel
Luis Buñuel negò l’intento di colpire sfacciatamente le istituzioni, dichiarando che le sue opere non fossero altro che il frutto di “umori, stati d’animo e ricordi.” A priori, ne “L’Age D’Or” il regista lasciò gli spettatori liberi di dedurre arbitrariamente che le angosce esistenziali sofferte dagli uomini fossero una diretta conseguenza del clero, dello Stato e delle forze dell’ordine; meccanismi che ostacolano la piena realizzazione amorosa dei due protagonisti.
Piuttosto d’imporre una tesi ben precisa sulla vita in sé, Buñuel pretese la meritata possibilità d’inscenare la propria visione dell’uomo medio: un essere piccolo e al contempo aggressivo, dominato dall’istinto di sopravvivenza e volto a tradire la sua stessa specie. Il caos generato dalle istituzioni non può che accentuare i primordiali impulsi d’attrazione e di repulsione, ufficializzando la fusione dell’oro e della feccia.
Robert Short, critico del cinema, a tal proposito si domandò:
È possibile che la compiutezza corporale e la psiche incongruente degli uomini anticipi la delusione relativa ad ogni loro aspirazione mirata a un’epoca d’oro?” […] Ogni età storica ribadisce il medesimo scontro tra impulso e inibizione.
La Città del Vaticano e il castello francese descritto dal Marchese De Sade ne “Le centoventi giornate di Sodoma” si uniscono nel medesimo mediometraggio. Il Cristo, esibito in un contesto diverso e dunque vittima del caso, si ritrova a vestire i panni del Duca di Blangis, personaggio fittizio dell’opera sadiana, simbolo del libertinaggio più sfrenato e raccapricciante. Gesù assume le vesti d’un pedofilo e feticista; “L’Age D’Or” si conclude con l’immagine d’una croce ornata di cuoi capelluti.
Un omaggio a un grande artista
È sull’onda dello scandalo provocato da “L’Age D’Or” che posa la trama di “Buñuel – Nel labirinto delle tartarughe,” quando il neoregista si ritrova privo di quattrini e di conseguenza non ha modo di finanziare ulteriori lavori. La fresca decisione d’azzardare lo ha condotto alla povertà; d’altra parte, gli artisti più autentici non scendono a compromessi nel loro lavoro. Citare ancora il Marchese De Sade si rivela particolarmente indicativo:
Sfortunatamente devo descrivere due libertini; aspettati perciò particolari osceni, e scusami se non li taccio. Ignoro l’arte di dipingere senza colori; quando il vizio si trova alla portata del mio pennello, lo traccio con tutte le sue tinte, tanto meglio se rivoltanti. Offrirle con tratto gentile è farlo amare, e tale proposito è lontano dalla mia mente.
Giordano Pulvirenti