Chissà cosa sarebbe accaduto se quel 26 gennaio di 56 anni fa, a Luigi Tenco, la solitudine l’avesse salvato anziché condannarlo. Chissà cosa ne sarebbe stato se nella stanza numero 219 dell’Hotel Savoy di Sanremo non avesse premuto il grilletto di quella pistola puntata alla tempia. Magari, dopo qualche disco d’oro, sarebbe scivolato nel dimenticatoio. O magari, invece, adesso sarebbe nel suo camerino, raggrinzito, corrugato e solo; condizione esistenziale che, non abbiamo dubbi, lo avrebbe egualmente accompagnato per la vita intera. Magari avrebbe radunato qualche bella rima e due note eufoniche in una impetuosa ballata popolare che, questa volta, sarebbe stata accolta con favore dalla giuria. O forse invece no. Forse per gli uomini come lui, inqueti e con l’anima caliginosa, non esiste requie. A Luigi Tenco, la solitudine che figurava amica se l’è portato via.
La cantava bene Luigi Tenco, la solitudine
Inizia il Festival della canzone italiana. Gagliardetto dell’anima popolare di un Paese che sulla canzone ci ha edificato la propria monografia. D’altronde, parlare di musica non significa mai disquisire di sette note e uno spartito; vuol dire, invece, fare i conti con uno degli elementi più squisitamente antropologici di una Nazione. Significa ripercorrerne la storia, raccontarne l’identità. Passata in una stazione radiofonica, incisa su un disco, lanciata in un juke box o suonata su una terrazza accesa solo dalla luna. A pensarci bene, ognuno dei momenti più incisivi dell’esistenza ha di certo un sottofondo musicale, una sorta di colonna sonora edificata dall’ippocampo deputato a tener in vita un ricordo.
E allora ecco che canzoni come “E non finisce mica il cielo” o “Piazza Grande” e, ancora, “Perdere l’amore” non sono solo codici identificativi di una preferenza. Diventano, invece, metriche incise per essere consegnate all’eternità, per spingersi verso la gloria mondiale, ma anche, più intimamente, per custodire il ricordo di un amore inobliabile. Nell’eclettico repertorio musicologico italiano, però, spalla a spalla con ritornelli dal sapore zuccherino, troviamo testi impegnati e impegnativi. Motivi che menzionano paure, tormenti, fragilità. “In un mondo di luci sentirsi nessuno” cantava Tenco, confessando, senza veli, un intimo senso di inappropriatezza e di solitudine e segnando, così, il passo della canzone engagé. Lo faceva in un’ Italia non ancora pronta alla rimostranza civile e sociale; in un Paese di medaglie ed eroi, di uomini virili che cantano la guerra e donne asservite che sussurrano ai fiori.
Segni particolari: occhi nubilosi e cuore blues
Non Tenco, lui non sente di appartenere al catalogo dei machi con l’elmetto stipato in cantina. È un uomo vulnerabile, spaventato, consapevole del suo scarso coraggio. E questa non allineata volubilità emotiva trova riparo nella sua “Ciao Amore, ciao”. Una icastica lamentazione del disagio dell’emigrazione in una Italia scardinata dal boom economico. Una levata di scudi camuffata da ballata incalzante che verrà bocciata senza appello dalla giuria votante. Troppo eterodossa per la retroguardia che applaude la freschezza di Fred Bongusto e Johnny Dorelli.
Alla fine degli anni ’60, la scena musicale italiana, costipata dalla canzonetta leggera, non ha ancora ceduto il passo alla canzone d’autore. Tenco, che, anticipando i tempi, sventola la bandiera del cantautorato italiano, fluttua febbrilmente tra Milano e Genova, acclarata madre dell’unica vera scuola di autori italiani. Tra i carruggi ibridi e accoglienti, Luigi Tenco conoscerà le note brune del jazz e del blues, la malia della poesia beat, la gentilezza della chanson francese e l’autolesionismo esistenzialista dei poeti maledetti come Verlaine e Rimbaud, ma anche di Cesare Pavese.
Il Don Chisciotte della canzone italiana
Alla stregua dell’eroe eponimo figlio della penna di Miguel de Cervantes, Luigi Tenco rappresenta l’antieroe della canzone italiana. Alunno della stessa scuola a cui appartengono Umberto Bindi, Gino Paoli, Bruno Lauzi, Fabrizio De André, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci, Piero Ciampi, Gianfranco Reverberi. Di fronte al porto violato da cartaginesi e saraceni, la voce di Cassine esplode in tutta la sua tumultuosa rottura col passato. D’altronde, chi prima di lui aveva avuto il coraggio di ammettere che «Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare, il giorno volevo qualcuno da incontrare, la notte volevo qualcosa da sognare». Parole intime quanto atipiche, sarcastiche, sicuramente non convenzionali se paragonate alla riverente “Tu si ‘na cosa grande” di Modugno. Prima della drammatica esibizione sanremese, Tenco rilascia una mordace intervista sanzionando la retorica senza fondamenta della “Linea verde” di Mogol. La definisce una protesta “annacquata, fine a sé stessa”.
Lui che le battaglie sapeva come condurle, finché c’era qualcosa per cui combattere, si intende. Non deve averla vista più, questa confidata assoluzione, impugnando la penna con la quale pose fine al tormento esistenziale. Quella penna che lo uccise ancor prima della pistola. “Ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io, tu e le rose in finale e una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che chiarisca le idee a qualcuno. Ciao, Luigi”. Poche parole al vetriolo che, però, siamo certi non avessero il colore dell’ingiuria né per il valzer melenso di Orietta Berti, né per la fanciullesche note interpretate da Gianni Pettenati e Gene Pitney.
Luigi Tenco, la solitudine di un uomo oltre il pettegolezzo e la cronaca nera
Se volessimo davvero redimerci dalla morte di Luigi Tenco, dovremmo forse smettere di immaginarlo steso in quella camera di hotel. Dovremmo esimerci dal pietismo con il quale raccontiamo la sua vita, ravvisandolo in quell’unico, estremo, ultimo atto. Nei ricordi di chi lo conobbe davvero, i lineamenti di Tenco vengono tratteggiati dall’introversione, dal sarcasmo, dalla ruvidezza, ma anche dalla passione e dalla giustizia sociale. L’amico Gaber non esitò a definirlo, in una intervista, “ un uomo fragile, ma soprattutto un uomo solo”. Se la scelse, Tenco, quella solitudine epidermica? Lavorò per costruire quel mondo di cui fu unico abitante o il suo silenzioso grido di aiuto non venne ascoltato?
Esiste una parola, nel vocabolario greco antico, che acquista l’ossimorico doppio significato di veleno e antidoto: pharmakon. Ecco, la solitudine fu per Tenco il suo intimissimo pharmakon. Ma la fragilità di un uomo come Tenco è lo stesso impulso che iscrive gli uomini del suo stesso nerbo nell’archivio delle leggende. Lontano, lontano dal tempo era Luigi Tenco. Lontano da quelle ingannevoli luci, dalla cronaca rosa, dagli amori fuggevoli e fatui, dal fumo del successo, dal bel mondo, dal gotha di quelli che contano. Lontano soprattutto da un palcoscenico che gli dedica due indegne parole prima di riprendere lo show. Avremmo potuto salvarlo, Tenco? Non ce ne è stata necessità. Gli uomini come Tenco, i sognatori, ci pensano da soli a salvarsi.