Luciano “Che vita agra quassù: caschi per terra e nessuno ti raccoglie”. Inconfondibilmente e irrimediabilmente Luciano Bianciardi. È in questo spietato passo del suo testamento letterario che si condensa tutta l’alienazione dello scrittore grossetano, trapiantato tra il cemento e l’ipocrisia della Milano degli anni ’50. Perché ci resta? Be’, perché Luciano era un romantico, uno degli ultimi sopravvissuti, un esteta del decadentismo. Scrittore, giornalista, traduttore, uomo di grande cultura, intellettuale engagé, Bianciardi verga con indelebile inchiostro pagine e pagine di biasimo all’apatia sociale verso la vulnerabilità umana, prima fra tutte la sua. Anarchico, epigono della scapigliatura e apologeta del Risorgimento, nella dissacrante penna di Bianciardi c’è tutto quello che per l’ottimismo avanguardista del dopoguerra bisognava ricusare.
Luciano Bianciardi, lo scrittore di Provincia
È il 14 dicembre del 1922 e in una Grosseto già sventrata dal regime fascista, viene alla luce, immaginiamo con suo grande disappunto, Luciano Bianciardi. Fin da giovane si appropria del prezioso lascito del padre, impiegato bancario con la passione per la storia risorgimentale. Al generale Garibaldi e all’epopea unificatrice, la penna della maremma dedica una delle più brillanti e dettagliate silloge mai rese al soggetto, svelando senza aloni la propria stima per l’epoca “miracolosa”.
Il ventenne Bianciardi, richiamato in Puglia a indossare la divisa da allievo ufficiale, conta le bombe sganciate su Foggia, saggiando già in quella verde età la potenza deflagrante della miscela esplosiva. Non saranno le uniche detonazioni che sconvolgeranno la vita del piccolo borghese con la passione per la letteratura. Le bombe sembravano ormai alle spalle e in quegli anni “il boom” non dirigeva la cognizione alla voce onomatopeica che riproduce il boato di una conflagrazione ma fotografava il nuovo benessere “scoppiato” nel dopoguerra. Il 4 maggio del 1954, invece, nel pozzo Camorra della miniera di Ribolla, un “boom” al grisù uccide 38 minatori, compromettendo irrimediabilmente la serenità di Bianciardi.
La parentesi serena ante Milano
Ritornato nella natale Grosseto, dopo aver maturato un pensiero genuinamente liberalsocialista alla Normale di Pisa, a Luciano Bianciardi viene affidato l’incarico di riordinare la biblioteca Chelliana, bersagliata dai cacciabombardieri durante il Gran Conflitto. Nella stessa città insegna al liceo e si inventa il Bibliobus, un furgone sgangherato col quale porta i libri nelle campagne. È disorganizzato, totalmente sfornito di concretezza e perde molti dei libri trasportati, ma anche i contadini delle sacrali terre toscane, in quel periodo, leggono di un certo Don Chisciotte della mancia.
Inizia per Bianciardi un biennio cheto, forse l’unica parentesi tersa che conobbe la sua vita randagia. Convola a nozze e sforna due figli , che cercherà sempre di proteggere dall’indifferenza. “Io sono con loro, i badilanti e i minatori della mia terra, e ne sono orgoglioso” scriveva Bianciardi, che indifferente non è riuscito ad esserlo mai. In questa mite temperie, Luciano incontra Carlo Cassola, con il quale scocca immediatamente la scintilla della stima reciproca, sversata nel desiderio di cambiare l’Italia e di farlo restando nel retropalco, nell’estraneità silenziosa della Provincia. Sono gli anni dei cineforum, dei libri sotto al braccio, dell’impegno civile, dell’antagonismo provinciale e delle prime inchieste. Collabora con La Gazzetta di Livorno, Il Mondo, Belfagor e insieme all’ormai fraterno amico Cassola, pubblica a puntate su l’Avanti! un reportage di denuncia sulla vita degli “uomini di lignite”.
Esplode la miniera e la bile di Luciano Bianciardi
Che poi ha anche un nome buffo il turno in miniera: gita la chiamano, quasi a rievocare le scanzonate visite guidate fatte insieme ai compagni di scuola. La notte del 4 maggio 1954, per la prima gita nel pozzo Camorra di Ribolla, ne scendono in sessanta; di questi ne risaliranno vivi solo una ventina o poco di più. Il sordo e potente boato, rilevato alle 8 e 27, arriva fino in paese, che inizia a piangere i suoi figli subito dopo averne udito l’eco. Saranno i minatori a riposo, quelli dell’altro turno, i primi soccorritori, organizzatisi in autonomia.
L’unica a non sapere cosa fare è la direzione della Montecatini, proprietaria del giacimento, tanto che alle 10 di quella maledetta mattina non è stato ancora ordinato lo sgombero dei pozzi attigui. Sarà imputata alla malasorte, al destino beffardo, alla nera signora che arriva quando vuole, la causa della tragedia. Ma, nella realtà dei fatti, come dichiarò lo stesso Bianciardi, la catastrofe di Ribolla aveva un nome ben preciso: inadempienza delle norme di polizia mineraria.
Bianciardi prende un treno per Milano perdendo sé stesso
Il dramma della miniera sconvolge profondamente Luciano Bianciardi, esacerbando il fisiologico nichilismo che ha contraddistinto la sua stringata esistenza. Arriva a Milano in estate, infiammato dalla canicola estiva che lo opprime – sensazione che non lascerà neppure nelle stagioni più fredde – chiamato alle armi dal neo-editore Giangiacomo Feltrinelli. La collaborazione con quella che sarà destinata a diventare un monumento dell’editoria italiana dura ben poco, Luciano è troppo intemperante e scapestrato per asservirsi ai dettami dell’ufficio. Si trascina a passo lento, senza lasciarsi mai inghiottire dal ritmo precipitoso e corrivo, nella città delle opportunità, avvolto dalla “scighera” che trapassa l’epidermide.
Disprezza Milano, Bianciardi, ma non riuscirà a lasciarla mai, avvezzato dall’ossimoro e avvelenato dal grigio dei fumaioli e dalla solitudine che la città gli regala. Tra i vicoli di una Brera bohémienne, traduce spasmodicamente Miller, Faulkner, Steinbeck, in compagnia della ligia amica grappa gialla. Sono gli squattrinati anni del Bar Jamaica, delle stanze d’albergo fredde e misere, delle mezze pietanze consumate in umili latterie, degli amici pittori e dell’amore adultero. Si innamora perdutamente della passionale e rivoluzionaria Maria, unica donna capace di tenere testa all’umore altalenante e al gomito spesso alzato di Luciano e, forse proprio per questo, suo intenso e ultimo amore. Non si separerà da Maria neppure dopo la commediola dal sapore neorealista susseguente l’irruzione di sua moglie Adria a Milano, sospettosa delle sue machiavelliche menzogne.
La vita diventa sempre più agra
Precario ante litteram, quando il precariato non esisteva neanche, Bianciardi, al lavoro abbottonato dell’ufficio predilige la vita randagia di scrittore e traduttore. Nel 1962 decide di immortalare eternamente le perifrasi dell’incoerenza moderna. È così che nasce La vita agra, romanzo autobiografico il cui protagonista sogghigna osservando con sguardo spietato e cinico lo squallore del miracolo italiano. Quella di Bianciardi è stata forse la più efficace denuncia ai bagliori post-moderni, una narrazione disgustata del quadrumvirato consumistico: lavoro, guadagno, pago, pretendo.
L’opera magna consacrerà definitivamente la sua dipartita, esponendolo a quel successo che lui tanto aborriva. “Anziché mandarmi via a calci in culo, mi invitano a casa loro”. Con queste aspre parole Biancardi parla dei salotti borghesi e degli esibiti cincin al Campari. Gli stessi che Luciano Bianciardi ha deriso tra le sue pagine, ora lo invitano alle feste. Lui non manca neppure a una, ennesimo ossimoro che lo getterà in un imperdonabile sconforto, lenito in quell’autunno del 1971 da un bicchierino di grappa in eccesso.