Da poco disponibile su Netflix, “Luce” è un film del 2019 che può vantare non soltanto un cast stellare, ma soprattutto la capacità di affrontare un tema come quello dell’integrazione razziale e della ricerca di una propria identità in una maniera del tutto inedita
Quella dell’integrazione razziale è una tematica ormai onnipresente nelle produzioni cinematografiche statunitensi, che da decenni riportano sugli schermi uno degli scontri più universali all’interno della società americana. In un contesto così saturo, nel quale ogni variante sul tema sembra ormai essere stata già raccontata, “Luce” rappresenta un’inaspettata eccezione. Il film, diretto da Julius Onah e basato sull’omonimo spettacolo teatrale di J.C. Lee (che ha partecipato alla stesura della sceneggiatura), narra infatti la storia di Luce (Kelvin Harrison Jr.), adolescente adottato dall’Eritrea da una coppia di bianchi (Naomi Watts e Tim Roth) quando aveva sette anni, da tutti considerato il ragazzo perfetto. L’apparente aura di perfezione di Luce viene però turbata quando l’insegnante nera Harriet Wilson (Octavia Spencer) scopre il lato oscuro del ragazzo, dando inizio a una serie di eventi che porteranno il film a svelare tutte le contraddizioni che si nascondono negli Stati Uniti contemporanei.
“Luce” è infatti un film che ribalta la retorica americana del successo e del senso di appartenenza, mettendone in luce la complessità ed esaltando le sfaccettature sovrapposte e contraddittorie di una realtà ben diversa da quella che siamo soliti vedere sul grande schermo.
Tra i punti di forza di “Luce” troviamo i dialoghi realistici e il rifiuto di ogni semplificazione, nonché il brillante approfondimento psicologico del protagonista
Nonostante i nomi importanti all’interno del cast di “Luce “potrebbero suggerire che il film favorisca le interpretazioni attoriali piuttosto che altri aspetti della messa in scena, ciò che risalta in modo immediato durante la visione è la sceneggiatura firmata da Julius Onah e J. C. Lee. Quelli che si alternano in “Luce” sono dialoghi brillanti e profondamente realistici, capaci di scavare nelle profondità dell’animo umano, caustici nell’evidenziare tutte le contraddizioni e le forzature che si fanno largo nelle conversazioni quotidiane non soltanto dei protagonisti, ma anche di quel pubblico a cui il film si rivolge.
Mostrando la superficialità che inevitabilmente prende il sopravvento in un mondo dove ogni complicazione viene ignorata fino a che non ci si convince non sia mai esistita, “Luce” va oltre le apparenze per indagare il trauma nascosto e bruciante, che sopravvive nonostante la sua costante negazione. La storia di Luce, l’adolescente apparentemente perfetto, è una parabola che vuole mostrare l’incapacità umana di tollerare la complessità del reale e che costringe tanto i protagonisti quanto gli spettatori a fare i conti con il dolore che si cela nella mancata sovrapposizione tra realtà e immagine mentale. Dai racconti dei genitori di Luce appare evidente che la tanto millantata perfezione dell’adolescente non è naturale, bensì è l’esito di una costruzione costante, un processo talmente totalizzante da aver finito per soffocare il ragazzo, costringendolo a fare i conti con un’identità che non sente come sua, una maschera che lo protegge e allo stesso tempo lo isola.
Come pubblico siamo investiti prepotentemente dalla pressione che Luce sente, quella di dover essere sempre all’altezza di ciò che gli altri si aspettano che sia: un perfetto simbolo di integrazione razziale, colui a cui è dato essere il token afroamericano in una società che non ha alcuna reale intenzione di eliminare le barriere che la tengono in piedi. Costretto persino a cambiare il suo nome, troppo difficile da pronunciare per i suoi nuovi genitori bianchi e americani, Luce si immerge totalmente nella cultura statunitense fino a che non riesce più a sopportare di essere costretto a soffocare se stesso e il suo trauma. Ecco allora che Luce è dilaniato dall’odio che gli provoca l’essere costantemente ridotto a uno stereotipo prima positivo e poi negativo, mentre nella sua testa risuonano pesanti le parole che la professoressa Wilson rivolge ai suoi studenti neri:
“È vostro sacrosanto dovere non essere mai degli stereotipi.”
La relazione antagonistica tra Luce e la professoressa Wilson è il centro focale della storia, la loro è una guerra senza esclusione di colpi dalla quale nessuno può uscire vincitore
Se i dialoghi e il rifiuto di una realtà semplificata sono ciò che rende “Luce” un film di grande qualità, è la messa in scena della relazione antagonistica tra Luce e la professoressa Harriet Wilson a mostrare tutta l’originalità e la potenza dell’opera di Julius Onah. Questi due personaggi, magistralmente interpretati da Kelvin Harrison Jr. e Octavia Spencer, sono i più controversi e realistici dell’intero film, perché ognuno a modo proprio lottano per affermare la propria idea di integrazione razziale, scontrandosi apertamente tra loro piuttosto che sfidare la società in cui vivono.
In generale è quello della professoressa, “la str***a”, “la donna forte, il personaggio chiave di “Luce”, lei così complessa nelle sue contraddizioni, animata da un desiderio di sistemare le cose talmente totalizzante da portarla a superare confini che non dovrebbero essere valicabili. Per tutta la durata del film Harriet Wilson continua a superare il limite, mossa da un senso di giustizia che appare folle, che non sapremo mai con certezza fino a dove la potrebbe spingere. Il suo volere aderire a tutti i costi da un ideale di perfezione per cercare di ribaltare la schiacciante situazione dei neri negli Stati Uniti d’America la spinge a giocare a Dio, a scegliere chi può continuare a essere contato tra le fila degli afroamericani e chi no, un gioco pericoloso e controverso che Luce non accetta, dando così inizio a una guerra che non può avere vincitori.
Nonostante le premesse brillanti, rimane la sensazione che nel complesso sia stata messa troppa carne al fuoco, rischiando di oscurare il tema centrale del film
La trama di “Luce” ruota quasi interamente intorno alla tematica dell’integrazione razziale e della ricerca di un’identità propria in una società che vorrebbe ridurre tutto a semplici stereotipi, mostrando come questi presupposti possano dare inizio a uno scontro culturale, razziale e generazionale. Se questi aspetti vengono affrontati nel film con una prospettiva originale e una sensibilità profonda, lo stesso non si può dire di alcuni dei temi che sono stati introdotti nelle sotto-trame laterali di “Luce”, argomenti di grande importanza che relegati sullo sfondo sono stati inevitabilmente banalizzati. In particolare, la questione della violenza sessuale e del trauma di Stephanie (Andrea Bang) e quella del tabù della malattia mentale nella comunità nera mostrata attraverso la storia di Rosemary (Marsha Stephanie Blake) risultano troppo abbozzate e poco armoniche rispetto al resto del film, che nel suo volere rinnegare ogni semplificazione finisce per cadere nella sua stessa trappola mettendo troppa carne al fuoco.
Al netto di questi passi falsi, “Luce” resta un’opera brillante, coraggiosa e originale, che si rifiuta di fornire un qualsiasi tipo di facile soluzione al suo pubblico. La sua forza narrativa sta nel mostrare senza alcun filtro tutta la potenza distruttiva degli stereotipi e delle categorizzazioni, portando in scena una guerra senza vincitori senza però risultare eccessivamente disfattista nei toni. “Luce” è doloroso e coinvolgente perché racconta della sovrapposizione tra trauma individuale e collettivo, lasciando tuttavia intravedere l’esistenza di spiragli di luce anche laddove la realtà sembra avvolta da una tenebra inscalfibile.