La mostra Love di Eccher al Chiostro del Bramante a Roma fino al 19 febbraio del 2017 mi ha regalato un sogno a metà. Personalmente è una mostra che ti da molto, curata nei minimi particolari, dall’audioguida che ci accompagna in tutto il percorso (premettendo che hai una vasta scelta di “compagni” di viaggio, ed io ho scelto David, un uomo di altri tempi con una voce persuasiva che racconta e canta tutto ciò che gli passa per la mente regalandoti sensazioni che probabilmente condividi con pensieri romantici).
L’arte contemporanea ci vuole accompagnare nell’amore in questo percorso, cosa che non sembrerebbe assurda: l’arte ha sempre voluto scegliere, nel corso dei secoli, come grande musa ispiratrice, Venere, il mondo dell’amore e tutto ciò che ci fa pulsare il sangue, dal cuore fino al cervello.
Dire che ti fa emozionare è poco, ma dire che ci lascia a metà è tanto. Purtroppo per chi va oltre, Eccher qualche pecca l’ha fatta nel scegliere i vari artisti, niente di criticabile per quanto riguarda la rappresentazione delle sale e sul come è stata strutturata, ma se ci dovessimo fermare una volta usciti dalla mostra, ci domanderemmo subito: ma manca qualcosa? Per quanto riguarda il mio occhio critico, purtroppo si.
Fra i diciotto artisti riuniti da Eccher, tre soltanto sono storici e vengono dalla Pop Art americana: Robert Indiana, Andy Warhol e Tom Wesselmann, un trio a cui manca Jim Dine con i suoi cuori iconici e che Eccher non menziona nemmeno nel catalogo.
Appena si entra, nella prima sala, ci ritroviamo subito dietro un siparietto stile retrò, ci perdiamo immediatamente nell’ascolto di God un video del 2007 dell’islandese Kjartansson, un finto set dall’avvolgente sipario rosa con orchestra, tutto ricreato e registrato in uno studio in Russia, in stile prettamente hollywoodiano love. Durante tutto il percorso ci aspettiamo fortemente di vedere Andy Warhol ed i suoi infiniti popArt d’amore, ma troviamo semplicemente con la serigrafia di un negativo di Marilyn Monroe accostata alle proiezioni di un film viscontiano della Franco-Austriaca Ursula Mayer.
Infine ci troviamo ad attendere l’Infinity Room delle zucche a pois optical della giapponese Yayoi Kusama, sensazione eterna più che infinita ci regala quest’ultima stanza. Una mostra che va vista, scoperta, assaporata a 360gradi, ma forse, per me, qualcosa ti lascia a metà. Due sono i miei interrogativi: l’amore ti entra dentro a tal punto di continuare a sognarlo in maniera utopica-reale? Oppure semplicemente, perché ci aspettavamo qualcosa di più? Lascio a voi l’ardua sentenza.
Alessia Spensierato