L’arte, da sola, è in grado di trainare l’economia? L’esempio del Louvre di Lens, la “folle scommessa”, si distingue come modello da seguire, al pari del Guggenheim di Bilbao o del Centre Pompidou di Metz
Quando Fedor Dostoevskij scriveva che la bellezza salverà il mondo aveva dannatamente ragione. La bellezza, se vuole, ti salva e ti cura da ogni male. E’ accaduto a Bilbao, dove una città che si stava rinnovando è diventata sede del prestigioso Guggenheim Museum. E’ accaduto a Metz con il Centre Pompidou e, sempre in Francia, è accaduto a Lens. Anzi, è accaduto nella sperdutissima Lens che pochi conosceranno come terra natìa di Jean-Baptiste Grison, padre di La Marseillaise, che è poi l’inno nazionale francese.
In questo sperduto centro del nord della Francia, fatto da scheletri di torri e da miniere abbandonate, è tutto un tripudio di luce e bellezza che con deferenza rende omaggio alla tradizionale identità di un paesotto fatto di buio, fuliggine e minatori fieri. E’ qui che anni fa era stata portata a termine la “folle scommessa” – così l’aveva definita il presidente François Hollande – della nuova “ala” del Louvre di Parigi. Una scommessa figlia di sano orgoglio nazionale, che non ha voluto la capitale padrona di tutto mentre il resto del Paese resta a languire. No. Il Louvre di Lens è stata una scommessa che di folle ha ben poco, ma di strategico ha tanto.
Lens – e con lei un po’ tutta l’area del Nord-Pas-de-Calais – dopo la chiusura dell’ultima miniera, avvenuta ventisei anni fa, ha conosciuto una crisi senza precedenti. Ci ha pensato il Louvre a interrompere questo declino, a salvare con la sua proverbiale bellezza una intera area dalla depressione. Ha sottratto terra al degrado, costruito una visione lungimirante di fruizione dell’arte come motore trainante di un’economia e come fattore di sviluppo. Gli scettici hanno dovuto subito ricredersi perché il Louvre di Lens, costato più di 200 milioni di euro, ha raddoppiato le stime di visitatori. Se ne prospettavano 500 mila ogni anno, se ne registrano 1 milione. E chi vi arriva, convinto di trovare una dépendance della sede parigina si sbaglia. E’ un’ala dislocata a 200 km, strategicamente collegata con il Tgv e altrettanto strategicamente vicina a Belgio, Olanda, Germania e alla stessa Gran Bretagna (l’Eurotunnel finisce a Coquelles, distante un centinaio di km). Per realizzarla, si è partiti da un concorso internazionale di architettura. Il più bravo si aggiudica il lavoro e firma la storia. Sarà per questo che a vincere è stato Sanaa, duo giapponese di fama mondiale che si è avvalso della collaborazione della paesaggista francese Catherine Mosbach.
Il risultato è una gran passeggiata dove interno ed esterno si confondono, in un grande spazio senza pareti, fatto com’è di vetro, bianco e acciaio e immerso in un parco verde che si estende su venti ettari. C’è la Grande Galérie, che espone un vero e proprio percorso nella storia, fatto da circa 200 opere risalenti alle civiltà più antiche fino all’Ottocento. Provengono dal Louvre di Parigi, col quale Lens alterna ogni cinque anni i capolavori da esporre. C’è poi il Pavillon de Verre, un luogo “non luogo” talmente puro e rarefatto, da prestarsi alla “decompressione” di tutta la bellezza incamerata nella Grande Galérie e alla contemplazione. E ancora la Galleria dedicata alle mostre temporanee – integrate con il Louvre parigino – e un auditorium per concerti, teatro, cinema ed eventi culturali.
Diciamocelo francamente: tanta, ma tanta roba! E altrettanto onestamente: chi diavolo conosceva Lens, prima di questa “pari insensé”? Siamo troppo addestrati a direzionalità stereotipate, così tanto che la traiettoria che parte dal centro e ha la periferia come meta ultima pare – appunto – un pari insensé. E invece è lungimiranza. E’ trasformare un ex luogo a nuove identità fatte di sviluppo. E’ amore verso un Paese tutto, creando i presupposti perché nessuno resti indietro. A colpo d’occhio, di Lens italiane ne abbiamo a iosa. Domanda: quando emuleremo i cugini d’oltralpe?
Alessandra Maria