Lotta all’AIDS: le sfide del 2020, dal Covid allo stigma sociale

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Di sanità non si parla mai abbastanza, nemmeno se è il 2020. Anzi, proprio perché è il 2020, rischiamo che il nostro parlare di salute sia unidirezionale, monopolizzato da dati e discussioni sul Covid 19. Intanto, però, le malattie più silenziose che da anni l’uomo conosce e affronta continuano a esistere, anche all’ombra del Covid, un nemico ben più rumoroso. Approfittiamo però dell’1 dicembre, la Giornata mondiale contro l’AIDS per fare il punto della situazione. 





La sindrome da immunodeficienza acquisita, da cui l’acronimo AIDS, è una malattia del sistema immunitario umano, causata dall’HIV, il virus dell’immunodeficienza umana. Si tratta di una malattia che ostacola il funzionamento del sistema immunitario, portando le persone che ne vengono colpite a essere più esposte a infezioni e tumori. L’HIV rende, quindi, più vulnerabili in generale con il progredire della malattia. L’HIV si trasmette in molti modi, attraverso ad esempio i rapporti sessuali, le trasfusioni di sangue contaminato e la cosiddetta “trasmissione verticale” tra madre e bambino durante la gravidanza, il parto e l’allattamento.



Una pandemia più silenziosa

Il virus è l’HIV e la malattia che causa è l’AIDS. Anche quest’ultima viene considerata una pandemia. Nel 2009, ad esempio, l’OMS stimava che vi fossero 33,4 milioni di persone che nel mondo vivevano con HIV/AIDS. Il ritmo di contagio era di circa 2,7 milioni di nuove infezioni all’anno, mentre i decessi annui ammontavano a 2 milioni. Nei decenni tra il 1981, anno in cui l’AIDS è stata individuata, e il 2009, le persone contagiate nel mondo sono state circa 60 milioni, con 25 milioni di decessi. Solo in Sudafrica, 14 milioni di bambini si sono ritrovati orfani proprio per questo motivo.



L’Aids in Italia

I dati riguardanti il nostro Paese sono stati resi disponibili dall’Istituto Superiore di Sanità e fanno riferimento alla situazione fotografata a fine 2019. Bisognerà quindi attendere le pubblicazioni dei prossimi mesi per capire l’effetto che il Covid 19 ha avuto sull’altra pandemia, quella dell’AIDS.

Il Notiziario Istisan del novembre 2020 riporta che nel 2019 sono state effettuate 2.531 nuove diagnosi di infezione da Hiv. Tradotto in dati statistici, significa 4,2 nuovi casi ogni 100.000 residenti. Nella media UE relativa ai termini di incidenza delle nuove diagnosi, l’Italia si colloca leggermente al di sotto della media, che si attesta invece sui 4,7 casi ogni 100 mila resisdenti. L’andamento, rispetto al 2012, è in riduzione, con una diminuzione più accentuata relativa agli ultimi due anni considerati, per tutte le modalità di trasmissione.

I ritardi nella diagnosi

La fascia più interessata dalle nuove diagnosi è quella che va dai 25 ai 29 anni. Nel 2019, la modalità di trasmissione non ha evidenziato prevalenza tra rapporti eterosessuali e omosessuali. Confermato il trend di riduzione nelle nuove diagnosi sugli stranieri. A preoccupare, però, è il dato sulle diagnosi tardive: i due terzi dei maschi e oltre la metà delle femmine sono stati diagnosticati tardivamente. Un terzo delle persone che si sono visti diagnosticare l’HIV nel 2019 ha atteso di avere dei sintomi o delle patologie correlate, prima di sottoporsi a controlli. Il numero di decessi delle persone con AIDS è stabile ed è pari ancora a 500 persone per anno.

Le terapie per l’AIDS

A preoccupare, oltre alla malattia, è l’assenza per ora di un vaccino. I trattamenti per l’HIV/AIDS possono rallentare o fermare il decorso della malattia, ma il problema è che si tratta di terapie spesso costose e non rese disponibili in tutti i Paesi. Diventa quindi un obiettivo fondamentale quello di rafforzare il ruolo della prevenzione e della conoscenza della malattia. Nella vita concreta, di fatto, cambia la routine e la consapevolezza nella scansione del tempo: ci sono esami del sangue da fare due o quattro volte l’anno e la cura prevede solitamente l’assuzione da una a tre volte al giorno di pillole. Naturalmente, per ottenerle, è necessario essere presi in carico da una struttura, che ogni due mesi le prescrive a chi ne ha bisogno tenendo sotto controllo dosaggi e andamento della terapia.

Lo stigma sociale associato all’AIDS

Ancora oggi, poi, quel che si accompagna alla preoccupazione per il decorso della malattia è sicuramente lo stigma sociale. Sebbene il mondo abbia fatto dei passi avanti, grazie anche a gesti eclatanti come la stretta di mano di Lady Diana ai malati di HIV/AIDS nel 1987 o il bacio dell‘immunologo Fernando Aiuti a una giovane paziente, il legame tra AIDS e la zavorra morale che si porta dietro fatica ancora a crollare.

Tutto deriva dal contesto scientifico in cui la malattia è stata scoperta: i primi casi di polmonite sospetta poi rivelatasi connessa all’AIDS furono riscontrati in cinque uomini omosessuali di Los Angeles. La stampa, poco dopo, coniò il termine “GRID”, acronimo inglese per Gay-related immune deficiency. Per essere curati, insomma, bisognava mettere in piazza o quasi molti dettagli della propria vita privata. A questo poi si aggiunse l’iniziale scoperta di una correlazione apparente tra gruppi sociali infetti, che risultavano essere haitiani, omosessuali, emofiliaci ed eroinomani, facendo soprannominare l’AIDS come “malattia delle 4H”. Dal 1982 scienza e stampa hanno usato il termine AIDS correntemente, ma il danno sociale ormai era fatto.

Ancora nel 2020

L’associazione concettuale tra virus e condotte sociali etichettate come trasgressive si fa ancora sentire, anche nel 2020. Spesso, più che con altre malattie, chi la contrae deve fare i conti con una malattia “giudicata”. A questo, quindi, si aggiunge anche la paura di sperimentare l’emarginazione e a vivere spesso la malattia in una condizione di clandestinità. La disinformazione in merito, anche nelle società più avanzate, è ancora dilagante. Molti non conoscono e, per un circolo vizioso alimentato dalla diffidenza, non vogliono conoscere, sia i rischi sia i non rischi. Per questo, hanno ancora molto senso di esistere anche nel 2020 campagne come quella di ASA e Milano Checkpoint, che sui social hanno lanciato l’hashtag #stophivstigma, per combattere quello che è il pregiudizio che alimenta la disinformazione sulla malattia e sui malati.

L’impatto del Covid

Nel 2020 è arrivata un’ulteriore preoccupazione. Molte strutture hanno dovuto modificare i protocolli previsti per le cure dei pazienti che seguivano prima del coronavirus. L’Istituto Spallanzani di Roma, ad esempio, dagli anni Ottanta è uno dei maggiori centri per l’assistenza e la ricerca sul virus dell’HIV. In questo ultimo anno, però, è diventato particolarmente noto per essere stata la prima struttura in Italia ad avere ospitato i due turisti cinesi infettati dal Covid a fine gennaio e, successivamente, ad avere isolato grazie al suo team di ricerca il Coronavirus SARS-CoV-2. La presidenza della Regione Lazio, quindi, ha poi individuato lo Spallanzani come Covid Hospital di riferimento regionale per l’epidemia. Ne è conseguito, quindi, che tutti i letti di degenza dell’istituto fossero assegnati ai pazienti Covid. Per i soggetti già in cura per il virus dell’HIV, quindi, molti ospedali hanno rimandato le visite di controllo dei pazienti in terapia antiretrovirale stabile.

Molte strutture, Spallanzani compreso, hanno mantenuto un protocollo di controllo da parte di un medico presente in struttura, per visionare i valori dei prelievi effettuati e comunicare tempestivamente la necessità di un intervento immediato. Sperando che la situazione possa tornare quanto prima alla normalità. Il timore, però, è appunto che, con la monopolizzazione mediatica del Covid, questo sia un anno in cui le persone non vedano la necessità di sottoporsi ai test. 

Per saperne di più

Elisa Ghidini

 

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