La nascita dello Stato d’Israele nel 1948 fu seguita dall’imposizione di un brutale sistema d’occupazione che rappresentò l’inizio di un incubo senza fine per i nativi palestinesi. Violenza, deportazione nei campi di prigionia e lavoro, saccheggi di abitazioni private, confische di terre, profanazioni di luoghi sacri e violazioni dei diritti fondamentali sconvolsero, da quel momento in poi, la quotidianità del popolo palestinese.
I nativi palestinesi “ritornati”
A partire dal 1948/49 l’intelligence israeliana iniziò a dare la caccia ad ogni “arabo sospetto”, per finire nel mirino del Mossad e dello Shin Bet bastava in realtà essere semplicemente uno dei milioni di profughi nativi palestinesi, sopravvissuti alla Nakba, che a guerra finita cercava di riprendere possesso della propria casa nei territori sotto occupazione israeliana.
L’esercito d’occupazione circondava paesi e villaggi, e successivamente, i servizi segreti facevano irruzione nelle case dei “ritornati”, qui compivano perquisizioni arbitrarie e ordinavano ai nativi palestinesi, legittimi proprietari degli immobili, di uscire, tutti i maschi dai 10 ai 50 anni venivano ammassati dentro recinti come bestie prima di essere trasferiti nel quartier generale.
L’incubo di Haifa e lo strumento intimidatorio del documento d’identità
La casa al numero 11 di Daniel Street nella città di Haifa, sede del principale quartier generale sionista, divenne ben presto l’incubo di tutti i nativi palestinesi.
Chi veniva condotto ad Haifa finiva per essere sottoposto ad estenuanti e brutali interrogatori da parte dell’intelligence israeliana.
Uno dei delitti considerati più gravi e per i quali si rischiava fino ad un anno e mezzo di carcere era il fatto di non possedere la nuova carta d’identità.
L’esercito d’occupazione effettuava controlli a tappeto proprio al fine di scovare nativi palestinesi sprovvisti del documento di recente istituzione.
Il rilascio della carta d’identità che almeno teoricamente avrebbe dovuto consentire un minimo di libertà di movimento, costituiva nei fatti uno strumento di pressione e intimidazione, dato che i servizi segreti israeliani, al termine di pressanti interrogatori, decidevano a propria discrezione se concederla o meno.
Campi di prigionia
Come si apprende dagli stessi diari di Ben Gurion, circa 9000 nativi palestinesi furono rinchiusi nei campi di prigionia, a Jalil, a sud di Haifa e ad Atlit. Definire opprimenti le condizioni di vita a cui erano sottoposti è un eufemismo, basti solo pensare che i guardiani venivano scelti tra le file di ex soldati dei gruppi terroristici paramilitari, Irgun, Haganah e Banda Stern.
Il caso più emblematico è quello di un ex ufficiale dell’Haganah, Yisca Shadmi, responsabile della strage di Kfar Qassim, dove furono assassinati 49 nativi palestinesi, che divenuto guardiano nei campi di prigionia, uccise due prigionieri. Shadmi non fu perseguito per i suoi delitti ma premiato per la sua ferocia, difatti fece carriera nell’amministrazione dello Stato, occupandosi paradossalmente proprio dei rapporti con i nativi palestinesi.
Giustamente con un curriculum come il suo non poteva andare diversamente.
Campi di lavoro
Ancora più alienante era la situazione dei prigionieri nativi palestinesi nei campi di lavoro di Sarafand, Tel-Litwinsky e Umm Khalid (vicino la città di Netanya).
Un sopravvissuto al massacro di Tantura, dopo il rilascio da uno di quei campi, descrisse così l’incubo che aveva vissuto sulla propria pelle:
“I superstiti del massacro di Tantura furono messi in una prigione vicina, dopo essere stati tenuti per tre giorni senza cibo furono stipati in camion dove era impossibile stare seduti e vennero minacciati di morte. Non gli si sparò ma furono presi a randellate in testa e il sangue schizzò dappertutto. Alla fine furono portati a Umm Khalid”
I nativi palestinesi nei campi di lavoro erano sottoposti a condizioni degradanti e disumane, costretti a trasportare pesanti macigni mentre pativano la fame, una patata a colazione e un pesce secco a mezzogiorno erano gli unici pasti che ricevevano. Chiunque osasse protestare o ribellarsi veniva pestato a sangue.
La spoliazione dei beni di proprietà dei nativi palestinesi
Al fine di aggirare le pressioni internazionali, in particolare, la risoluzione 194 dell’ONU che prevedeva il rimpatrio incondizionato di tutti i nativi palestinesi, Ben Gurion attuò vari stratagemmi per mettere la Comunità internazionale davanti al fatto compiuto e sfuggire così ad eventuali sanzioni.
Da un lato, buona parte delle abitazioni di proprietà dei nativi palestinesi furono demolite per impedire il ritorno dei legittimi proprietari, dall’altro, centinaia di migliaia di immigrati ebrei provenienti dall’Europa centrale e orientale, furono incoraggiati ad impossessarsi delle case rimaste in piedi allo scopo di far sorgere insediamenti ebraici sulle macerie dei villaggi da cui i nativi palestinesi erano stati sradicati.
Un’altra tattica per aggirare la risoluzione 194 consisteva nella decisione di porre le case e le terre di proprietà palestinese sotto la custodia statale.
Una volta che questi beni privati vennero statalizzati, diventando così “beni della nazione ebraica”, il governo cominciò a venderli a singoli ebrei o enti pubblici, con la scusa che nessuno li aveva reclamati. Chiaramente, dalla vendita vennero esclusi categoricamente tutti i potenziali acquirenti arabi.
“Furia iconoclasta ebraica”
Neppure i luoghi sacri furono risparmiati dal processo di spoliazione per opera dello Stato ebraico. Di alcune moschee restano solo le rovine, ostentate come “vestigia del passato” che ricordano la potenza distruttiva di Israele, altre moschee, come Maj-dal, Qisarya e Beersheva sono state trasformate in ristoranti e negozi.
Della moschea Ayn al-Zaytun rimasero in piedi solo pochi resti, spazzati via nel 2004 per lasciare spazio ad un’azienda per la produzione del latte.
Le moschee Wadi Unayn e Yazur, furono “ riconvertite” in sinagoghe. La moschea Abassiyya, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, inizialmente fu trasformata in una sinagoga e poi abbandonata, oggi le sue mura sono sfregiate da graffiti recanti frasi del tipo “Uccidete gli arabi”.
La “furia iconoclasta” ebraica come la definisce lo storico Ilan Pappe, mirò sin da subito a cancellare la memoria storica e religiosa dei nativi palestinesi, anche nelle poche moschee rimaste intatte viene impedito l’accesso per mezzo di vari espedienti e raggiri, come nella moschea di Hittin, luogo simbolo dell’Islam, costruita da Salah al-Din nel 1187 per celebrare la vittoria sui crociati cristiani.
I saccheggi
Secondo gli osservatori ONU il saccheggio costituiva uno degli strumenti attraverso cui i sionisti intendevano impedire il ritorno dei nativi palestinesi nelle loro case.
A Giaffa, Haifa e altre città, erano diventati consuetudinari i saccheggi sistematici, in forma privata o autorizzati dalle autorità sioniste, di case private, negozi di alimentari e spacci di orzo, farina, zucchero, riso, frumento, gestiti precedentemente dai mandatari inglesi per i nativi palestinesi. Il pretesto dichiarato per giustificare tali incursioni era la ricerca di armi, quindi l’esigenza della sicurezza, alla fine il bottino arraffato veniva portato negli insediamenti ebraici.
Così scriveva il governatore militare di Giaffa in una relazione inviata a Ben Gurion in merito al procedere delle confische:
“ In riferimento alla sua richiesta di garantire che tutti i prodotti necessari all’esercito, l’aviazione e la marina siano consegnati alle persone responsabili e portati via da Giaffa al più presto, la informo che sin dal 15 maggio 1948 esce da Giaffa una media di 100 autocarri al giorno. Il porto è operativo. I magazzini sono stati svuotati e le merci portate via”.
Gli stupri
Diverse fonti annoverano vari casi di stupro, un funzionario della Croce rossa riferì dello stupro di una ragazza, e dell’assassinio del fratello, durante l’assedio di Giaffa. Dalle relazioni della Croce rossa si apprende che per le truppe israeliane era prassi consolidata sequestrare gli uomini nativi palestinesi e farli prigionieri, per poi poter stuprare le donne.
In una di queste relazioni emerge una vicenda atroce accaduta il 9 dicembre 1948, quando l’esercito d’occupazione fece irruzione nella casa della famiglia di Suleiman Daud e sequestrò la figlia diciottenne, per diciassette giorni la ragazza fu tenuta prigioniera e subì violenza sessuale.
Un altro caso raccapricciante venne riportato nell’ottobre del 2003 sul quotidiano israeliano Haaretz, il quale attinse dalle testimonianze degli stessi stupratori. I drammatici fatti si consumarono il 12 agosto 1949 nel deserto del Negev, un plotone di soldati sequestrò una bambina beduina di 12 anni e la rinchiuse per tutta la notte nella base militare che distava pochi chilometri dal kibbutz Nirim. La piccola per giorni venne usata come schiava del sesso, violentata a turno da tutti i soldati e infine brutalmente assassinata.
L’innocenza infranta e la vita sradicata di questa piccola nativa palestinese non trovarono mai giustizia, infatti la pena maggiore inflitta dal tribunale israeliano ai responsabili fu la reclusione per due anni per l’esecutore dell’omicidio.
Secondo l’ONU i casi di violenza sessuale subiti dai nativi palestinesi sarebbero molti più di quelli emersi, tuttavia i traumi psicologici, le barriere culturali e religiose, la vergogna, impediscono di ricostruire l’effettiva portata.