Nel panorama geopolitico sempre mutevole dell’Africa occidentale, l’Italia in Niger, ha l’obiettivo di esternalizzare le proprie frontiere e gestire il flusso migratorio proveniente dal Sahel. Questa strategia, nata in seguito alla caduta del controllo territoriale di Gheddafi in Libia, solleva una serie di interrogativi sulle reali intenzioni dell’Italia e sulle implicazioni che ciò comporta per la regione e per i migranti stessi.
La presenza italiana nel Niger ha suscitato dibattiti e interrogativi in relazione all’obiettivo di esternalizzare le frontiere al fine di controllare il flusso migratorio proveniente dal Sahel. Questo obiettivo sembra mettere in discussione le dichiarazioni ufficiali di lotta al terrorismo, rivelando un’agenda più complessa e controversa.
Dal 2018, l’Italia ha mantenuto una presenza militare stabile nel Niger attraverso la “Missione bilaterale di supporto”. Questa missione ha previsto il dispiegamento di un massimo di 290 militari, 160 veicoli terrestri e cinque mezzi aerei. Nonostante ciò, la nuova giunta militare in Niger finora non ha rivolto alcun ultimatum al contingente italiano, e sembra che i soldati italiani siano ben accolti a Niamey, dove non sono oggetto di odio popolare. Il governo italiano ha cercato di favorire l’approccio diplomatico e dialogico nella gestione della crisi nigerina.
Tuttavia, fonti dell’Agenzia Stampa Dire segnalano un progressivo ritiro dei soldati italiani dal Niger. Un recente volo dell’Aeronautica Militare italiana ha trasportato 65 militari fuori dal paese il 5 agosto scorso. Il Ministro della Difesa, Crosetto, ha confermato ulteriori piani di ritiro nel corso della prossima settimana.
Questa presenza militare suscita preoccupazioni in merito al rispetto dei diritti umani dei migranti. L’approccio seguito sembra essere in linea con le politiche dei governi italiani degli anni passati, che non sempre hanno garantito la tutela dei diritti fondamentali. Con il governo attuale guidato da Giorgia Meloni, si è resa esplicita l’intenzione di ripristinare l’influenza italiana in Africa e di fermare le rotte dei trafficanti di esseri umani. Tuttavia, questa strategia, chiamata ironicamente “Piano Mattei”, è stata criticata per l’uso inopportuno del nome dell’ex presidente dell’Eni, che aveva sostenuto paesi in via di sviluppo anziché l’imperialismo.
Inizialmente, il piano prevedeva il consolidamento della presenza italiana in Libia, prima dell’esplosione della guerra civile, seguita dall’espansione nel Niger, considerato un punto chiave per i flussi migratori diretti verso il Mediterraneo. Il coinvolgimento italiano è stato rallentato dai francesi, che hanno cercato di limitarne l’azione e hanno costretto l’Italia a cercare il sostegno delle strutture statunitensi.
Nonostante il piano iniziale, parte delle truppe italiane ritirate dal Mali era destinata al dispiegamento nel Niger, aumentando così il contingente complessivo a 500 militari. Ufficialmente, questa presenza mirava a contrastare l’insurrezione jihadista e l’avanzata dei mercenari russi, ma sembra che l’obiettivo principale fosse ostacolare il passaggio dei migranti attraverso l’Algeria e la Tunisia, con destinazione Italia.
L’ossessione focalizzata sul “pericolo migranti” e la destabilizzazione del Sahel sembrano basarsi principalmente su soluzioni militari. Al contrario, sarebbe opportuno adottare un approccio più ampio che coinvolga la condivisione delle risorse, il sostegno alle attività economiche locali, la riforma della governance e il rispetto dei diritti umani. L’attuale presenza militare di 290 soldati, 20 mezzi terrestri e 8 aerei, con un costo di 16 milioni di euro nel 2020, sembra discutibile e incoerente con l’obiettivo di tutelare i diritti delle persone. Questo aspetto è stato criticato anche da padre Mauro Armanino, missionario presente in Niger da oltre 10 anni, che ha evidenziato l’importanza di considerare il benessere delle persone e promuovere soluzioni più umane ed inclusive.