La convinzione che i paesi in via di sviluppo siano costretti a scegliere tra sviluppo socioeconomico e de-carbonizzazione si è, infine, dimostrata una falsa dicotomia. L’idea di vecchia data che gli obiettivi climatici e l’interesse economico siano incompatibili è un anacronismo, tanto un artefatto del passato quanto i costosi pannelli solari.
Per oltre cinque decenni, gli incontri ambientali internazionali sono stati animati da un divario nord-sud: le nazioni ricche del nord globale si sono impegnate a tenere a freno le emissioni globali. Mentre le controparti meno abbienti si sono sentite emarginate. Tali sentimenti derivavano dall’idea che l’adesione agli obiettivi climatici sopprime lo sviluppo economico. Dal punto di vista dei Paesi in via di sviluppo, gli slogan promossi dai Paesi più ricchi sono contaminati da un’ipocrisia insostenibile.
Il dilemma è racchiuso nella famosa osservazione di Indira Gandhi, alla Conferenza di Stoccolma del 1972: ‘La povertà è il più grande inquinatore‘. Questo punto di contesa è vivo oggi come lo era allora. Ma la differenza è che, quando parlava Gandhi, i combustibili fossili rappresentavano il percorso più conveniente per lo sviluppo economico. Oggi quella logica non regge più. Come mai?
Sono in gioco due tendenze simultanee: la diminuzione del prezzo di tecnologie alternative più pulite e i costi in rapida crescita associati allo sviluppo ad alta intensità di emissioni.
I dati dipingono un quadro più chiaro: il prezzo dei pannelli solari è ora inferiore allo 0,2% rispetto a quello negli anni ’70. A quei tempi, i pannelli solari costavano oltre 100$ per watt. Oggi, la stessa quantità di energia viene acquistata per soli 20 centesimi. Allo stesso tempo, le nazioni più ricche, come l’Unione Europea, stanno implementando piani per imporre un prezzo sul contenuto di carbonio delle importazioni, una mossa ritenuta ‘discriminatoria’ da varie economie emergenti.
Questo cambiamento di paradigma significa che il successo del vertice sul clima COP26 delle Nazioni Unite a Glasgow è giudicato da metriche drasticamente diverse da quelle utilizzate per valutare l’Accordo di Parigi del 2015. In parole povere, l’asticella è più alta a Glasgow che a Parigi: lì, il successo è stato misurato in “promesse” e “accordi” astratti, ma ora l’esecuzione pragmatica ha la precedenza.
Fortunatamente – e contrariamente alla credenza convenzionale – ci sono almeno due buone ragioni per credere che la COP di Glasgow non fallirà.
In primo luogo, i dati favorevoli dell’opinione pubblica suggeriscono una diffusa consapevolezza della società sui pericoli del cambiamento climatico. Nella nazione ospitante, la Gran Bretagna, il 95% del pubblico riconosce che il cambiamento climatico è almeno in parte attribuibile all’attività umana. Politicamente, gli obiettivi climatici del Paese mantengono un sostegno bipartisan.
Ancora più importante e al di là dei dati dei sondaggi, gli obiettivi climatici e l’interesse economico personale sono più armoniosi di quanto non siano mai stati. Questo allineamento senza precedenti è emerso da una recente ricerca.
Un gruppo di esperti riconosciuti a livello internazionale, guidato da Cameron Hepburn, direttore della Smith School of Enterprise and Environment dell’Università di Oxford, ha analizzato una pletora di politiche di recupero da COVID-19. Ha scoperto che gli Stati il cui orientamento politico è il raggiungimento degli obiettivi climatici ha creato più posti di lavoro. E ha prodotto, inoltre, un migliore ritorno sull’investimento rispetto a quelli che non lo hanno fatto.
Inoltre. I dati dell’OCSE indicano che un aumento del 10% dei prezzi dell’ energia ha un effetto positivo sulla produttività. Nessun impatto netto sul commercio e una diminuzione trascurabile dell’occupazione manifatturiera di meno dell’1%.
Queste cifre escludono ramificazioni meno quantificabili come gli effetti sulla salute delle emissioni di particolato. Insieme alla perdita di competitività delle città così inquinate che coloro che possono permettersi di andarsene lo stanno facendo rapidamente.
L’India, un’economia emergente, sta cadendo vittima di entrambi gli effetti.
L’indice di qualità dell’aria (AQI) per Nuova Delhi era a 451 la scorsa settimana. Le stime inferiori a 50 sono considerate sicure, mentre qualsiasi valore superiore a 300 è considerato pericoloso. Ma la sfida dell’India arriva con un’opportunità altrettanto allettante.
Secondo l’analisi di Nature, impegnarsi a generare l’80% dell’ energia da fonti rinnovabili, entro il 2040, farebbe risparmiare 50 miliardi di dollari. Rispetto a una situazione in cui l’energia verde è assente.
Nonostante l’ambizioso progetto di riforma socio-economica del Paese, l’Arabia Saudita è un esempio di Nazione profondamente consapevole di questa nuova realtà climatica. L’Arabia Saudita è il più grande esportatore di petrolio al mondo, al contempo può essere il maggiore produttore di energia verde del mondo. Con meno perdite di metano ed emissioni del ciclo di vita inferiori rispetto a qualsiasi altro Stato produttore di petrolio.
Vision 2030 sottolinea esplicitamente la centralità dell’ energia verde per lo sviluppo nazionale sostenibile. Si stima che 9,5 gigawatt di potenza saranno generati interamente da energie rinnovabili. Così come l’8% della capacità installata e il 2% della domanda totale di energia nel 2030.
L’Arabia Saudita ha una delle più alte risorse di irradiazione normale diretta (DNI) al mondo. In parole povere, questo significa che pochissimi luoghi in tutto il mondo ricevono l’intensità e la consistenza della luce solare . La Saudi Green Initiative, lanciata di recente, si pone l’obiettivo di ricavare il 50% dell’energia elettrica della rete del Paese da fonti rinnovabili entro il 2030. Un obiettivo ambizioso reso possibile dallo sconfinato potenziale solare.
L’Arabia Saudita ha già lanciato una serie di progetti di energia pulita per mostrare il suo profondo impegno nella lotta ai cambiamenti climatici. Un esempio è ‘THE LINE‘ di NEOM. Una smart city iper-connessa di 170 chilometri alimentata al 100% da energia rinnovabile. Più di recentemente, il Paese ha assunto un impegno fondamentale per l’azzeramento delle emissioni nette entro il 2060, uno sviluppo significativo in linea con la traiettoria di riforme del paese.
Mentre il mondo di Gandhi era quello in cui le nazioni in via di sviluppo rischiavano di essere inquinate dalla loro povertà, quello in cui viviamo oggi è quello in cui le nazioni affrontano il rischio maggiore di essere impoverite dal loro inquinamento.
Questo spostamento tettonico significa che un percorso ad alta intensità di emissioni non è la strada più ottimale per la prosperità economica. Ostacola lo sviluppo gravando le economie emergenti con energia a più alto costo quando sono accessibili alternative più economiche.
I finanziamenti sono stati a lungo un grande punto critico nella lotta globale contro il cambiamento climatico e quasi tutte le spese per l’eolico o il solare arrivano nella fase di costruzione. Spetta ai paesi ricchi estendere il cruciale prestito a lungo termine ai mercati emergenti richiesti dai progetti rinnovabili.
E sebbene entrambe le rispettive parti possano differire sulla strada per un futuro a zero emissioni di carbonio, condividono un interesse prevalente nell’affrontare il cambiamento climatico.
La verità è che le economie emergenti come l’India – una nazione che deve ancora impegnarsi per l’azzeramento delle emissioni – sono disposte a intraprendere un percorso verde per lo sviluppo, ma non possono farlo da sole. Sono necessari contanti per investire in reti elettriche compatibili con le rinnovabili e capacità di eliminazione graduale del carbone.
Mezzi robusti per alimentare questi fini strategici sono imperativi. L’entità dell’azione per il clima da parte sia delle nazioni ricche che di quelle in via di sviluppo oggi non dovrebbe essere appesantita da limiti storici, abbracciando pienamente la scala delle opportunità oggi – quella in cui gli obiettivi climatici e lo sviluppo economico sono strettamente intrecciati.