Lo spirito umano dovrebbe configurarsi come l’ininterrotta e sempre perfettibile sorgente d’irradiazione del fare dell’uomo. A volte paradigma, in altri casi potere che frena. Ma sempre e comunque tutela, marchio, impronta di ciò che fa dell’uomo un uomo.
Una pandemia, per quanto possa abbattersi su un’umanità non pronta in modo inatteso e sconvolgente, è un accadimento complesso. Ed in quanto tale dovrebbe essere accolta, elaborata, affrontata. Dalle iniziali e più critiche fasi, ai meno gravosi momenti di flessione e, almeno relativa, quiete. Stato di cose, quest’ultimo, che non inficia minimamente il fardello di sofferenze, devastazioni, morti, inferte dal virus. Eppure, malesseri e stati depressivi, che non di rado sfociano all’ultimo grado di sopportazione possibile, dipendono anche da altro. Si diffondono sibillini da cause anche derivanti da una discutibile gestione dell’evento pandemico. Davanti a ciò è di fondamentale importanza custodire, ad oltranza, lo spirito umano.
Pena il disperdersi, fino alla dissoluzione, dell’umanità dell’uomo, intramontabile archetipo di ogni pensare ed agire. Ed anche di qualunque gestione della cosa pubblica, qualsiasi sia il piano di riferimento. Ferma restando l’ineludibile rete complessa in cui si intrecciano i vari teatri gestionali ed organizzativi dell’assetto politico-sociale umano, oltre che individuale.
TUTELA E OBLIO DELLO SPIRITO UMANO
Lo spirito umano dovrebbe configurarsi come l’ininterrotta e sempre perfettibile sorgente d’irradiazione del fare dell’uomo. A volte paradigma, in altri casi potere che frena. Ma sempre e comunque tutela, marchio, impronta di ciò che fa dell’uomo un uomo. Dell’umanità dell’uomo, appunto.
Si assiste però, non di rado, a decisioni e declinazioni del reale del tutto scevre di questa bussola orientativa. È, fino ad un certo punto, anche comprensibile. Partendo, beninteso, dal presupposto che tentare di comprendere i fatti non significhi né giustificarli né tantomeno condividerli. Siamo esseri caduchi e fallibili. Ma non per questo destinati al fallimento, per quanto è in nostro potere. E quando vi è modo, nei limiti dell’umano, di agire in ordine alla tutela dello spirito umano si aprono regioni di occasione.
Dovrebbero far riflettere, al contrario, fatti ed eventi che eludono, ignorano, scavalcano, offendono prevaricano lo spirito dell’uomo. E su questi occorre sostare. Non in senso polemico, accusatorio, prescrittivo. Ma in modo tale da pensare e, conseguentemente, tentare di strutture sintesi diverse.
UN CASO ICASTICO
È difficile, se non impossibile, rimanere impassibili di fronte a quanto si apprende da una lettera aperta pubblicata su crotonenews.com. Dalla quale trapela una delle più tetre pratiche gestionali dall’inizio dell’emergenza sanitaria.
Gentile Redazione, sono solo 3 giorni, una manciata di ore, che la mia anziana madre non c’è più. Per 8 lunghi anni abbiamo fatto il possibile, e qualche volta anche l’impossibile, per poterle dare e mantenere una buona qualità di vita. Molto difficile, in mezzo alle mille difficoltà dei suoi problemi di salute e alle trappole della burocrazia. Ben poco abbiamo potuto fare di fronte ad una ischemia cerebrale, successivamente evoluta in emorragia, e quello che potevamo fare, che certamente non era poco, ci è stato in qualche modo impedito. […]
Mia madre è entrata in ospedale con tanti problemi associati all’evento ischemico acuto, che i sanitari hanno cercato di fronteggiare al meglio delle loro capacità, purtroppo senza ottenere risultati. Quando la situazione è diventata drammatica e si è cominciato a pensare al peggio – un sesto senso me lo diceva sin dal primo giorno – l’unica possibilità era di avere il coraggio e la forza di accompagnare una vecchietta anziana e indifesa, come un bambino, verso la chiusura di questa vita.
Ho chiesto più volte e a più riprese, garbatamente, di poter entrare e di starle vicino, ma puntualmente è arrivato il diniego a causa delle restrizioni imposte dall’infezione COVID.
LA NECESSITÀ DI TRACCIARE VIE ALTERNATIVE
Chiaramente bisogna debitamente discernere le fasi. Durante le più sconquassanti e letali fasi iniziali della pandemia – con reparti in subbuglio e pressione ospedaliera all’apice – una simile confusione prospettica e pratica poteva pur comprendersi. Ma solo in una qualche misura. Nel rispetto, comunque, delle più profonde ed autentiche esigenze dell’umano. Anche in quel caso, dunque, con le dovute precauzioni e tutti gli accorgimenti necessari, sarebbe stato forse possibile tracciare vie alternative. Data l’evoluzione epidemiologica e il conseguente ed attuale stato di cose, vincoli di tal fatta risultano, ad oggi, smisurati oltre che profondamente immotivati. Inaccettabili. Ripercorrendo le parole dell’autore della lettera aperta:
In questo tempo abbiamo assistito progressivamente a paura, chiusure, morti e fallimenti commerciali, seguiti però da riprese, recupero e, non ultimo, desiderio di riaprire per tornare a vivere, finalmente. Dopo 2 anni e 2 mesi dal primo lockdown è necessario che anche l’ospedale civile di Crotone, se non può permettersi di riaprire al pubblico, cominci a provvedere con forme alternative alla presenza dei familiari.
INTERROGATIVI FONDAMENTALI
È possibile che, neanche con la dovuta cautela, non possa essere garantito un diverso margine di gestione? E ancora: fino a quando questo stato giuridico-abitudinario dovrà persistere? In altre parole: quando si potrà tornare – nelle suddette circostanze – a non morire soli? Quando i cari di persone in stato terminale, o quasi, potranno affrancarsi dal terrificante obbligo di non poterli assistere? Di non poter condividere, fino all’esalazione dell’ultimo respiro, ogni secondo, parola, battito.
L’UNICA CONSOLAZIONE NEL MORIRE
Come evidenziato dal filosofo Alberto Giovanni Biuso nella sua ultima opera Disvelamento, è un atto disumano negare l’unica consolazione «che nel morire è la presenza di coloro che ci amano, le loro mani intrecciate alle nostre». Continua il docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Catania, nell’opera in questione:
Come se impedire ai padri di morire abbracciati ai figli e ai figli di stringere per un’ultima volta le mani dei padri non producesse un peso di angoscia, di colpa, di distruzione della sacralità del vivere che nessuna civiltà conosciuta ha finora vissuto e subìto.
Parole forti. Che ardono e si disvelano – appunto – nella loro potenza, soprattutto se affiancate a quanto si continua a leggere nella lettera aperta.
Dal 17 maggio fino all’ultimo giorno mi sono chiesto quante volte mia madre avesse aperto gli occhi per cercarmi, quante volte le fossi venuto in mente e quante altre avesse pronunciato una sua espressione tipica, tipica dei crotonesi che chiamano teneramente i figli: “figghicè”! E io non c’ero né per consolarla né per darle forza. Queste domande sono state e sono ancora un tormento…
A me e ai miei fratelli rimane solo l’amarezza, dopo tanta fatica, di non averla potuta salutare in maniera dignitosa. E tutto questo non a causa della possibile infezione da COVID, dietro la quale ormai troppo spesso ci si trincera, piuttosto a causa della scarsa diligenza e capacità professionale di chi dovrebbe anticipare e provvedere in tempo a soddisfare i bisogni degli utenti.
QUESTIONI SULLO SPIRITO UMANO DA ABITARE
Quella che si dipana dalla lettera aperta è una questione che siamo chiamati ad abitare. Incontrare simili svolgimenti dei fatti dilania e scoraggia non poco. Paradossalmente fedeli all’impianto burocratico, gestioni di questo stampo decretano la morte della burocrazia. Se quest’ultima prevarica, ignora, violenta qualunque accenno, ombra, traccia dello spirito umano, diventa crudeltà, pratica disumana. Tetra, fredda, meccanica applicazione procedurale che non si cura del contenuto di ciò che attua. Terreno fertile della più mera, becera ed impassibile indifferenziazione etica. E – la storia ce lo insegna – non ce lo possiamo permettere. Se vogliamo dirci umani e vivere come tali. Fungono da monito le parole del professore Biuso:
Condizione e fondamento di ogni vita è dunque l’elemento biologico. Il quale è necessario ma non è sufficiente. È da salvaguardare con tutti gli strumenti medici, politici, sociali che epoche e situazioni offrono. Ma non è sufficiente. […] Vivere è non smarrire mai, e anzi moltiplicare, la dimensione simbolica, culturale, collettiva dello stare al mondo.
Fungono da monito i fatti narrati dall’autore della lettera aperta. Che senza «alcuna intenzione polemica, né denigratoria», ha tentato di «richiamare ad un senso di civiltà e di umanità che sta vacillando troppo spesso». E da operatore sanitario rivolge un invito agli addetti ai lavori, oltre a rammentarci che:
Abbiamo il dovere di prenderci cura dei familiari, quando non riusciamo più a fare molto per i pazienti che ci vengono affidati. Altrimenti abbiamo fallito!
A fronte di ciò si erge lo spirito umano che deve rimanere. Eventi simili ce ne ricordano il significato. Nel terribile dell’accaduto e nella sofferente ma meravigliosa reazione di chi lo ha patito. Lo spirito umano che deve rimanere. A giudicare dalla lettera aperta, lasciato in eredità da chi è scomparso. La cui Viva Voce rimbomba ancora tra noi.
Mattia Spanò