Oggi, 25 marzo 2023, si celebra la Giornata Internazionale di Commemorazione delle Vittime della Schiavitù e della Tratta Transatlantica degli Schiavi. C’è ben poco da commemorare, però, se la schiavitù sopravvive tutt’ora.
Lo sfruttamento minorile in numeri
Quando si parla di sfruttamento in ambito lavorativo le parole che si possono (e si dovrebbero spendere) non sono mai abbastanza. I modi in cui il modello economico che abbiamo scelto di adottare sfrutta le e i lavoratori sono molteplici e spesso invisibili. Tra tutti, ciò a cui si vuole dare spazio in questa sede è una considerazione sullo sfruttamento minorile: bambini e ragazzi costretti a passare le loro giornate in fabbriche per farci arrivare una mole esorbitante di prodotti sugli scaffali.
Secondo le ultime stime dell’ILO (Organizzazione Internazionale del lavoro), 49,6 milioni di persone sono attualmente soggette ad una forma di schiavitù. Di queste, il 12% sono minori coinvolti in un tipo di sfruttamento commerciale o sessuale. L’associazione denuncia che dal 2016 gli sforzi per prevenire questo fenomeno si sono arrestati: si contano circa 160 milioni di minori impiegati come forza lavoro. Di questi, il 72,1% viene costretta a lavori domestici, rimanendo quindi all’interno del nucleo familiare ma obbligati a provvedere al sostentamento. Se si parla invece di lavoro fuori dalle mura domestiche, il settore con la percentuale maggiore è l’agricoltura con il 70%. Il continente in cui i numeri sono più elevati è quello africano, in particolare l’Africa subsahariana.
La schiavitù dei nostri giorni
C’è una profonda contraddizione riguardante i Paesi occidentali (o industrializzati) quando si parla di mercato e produzione. Da una parte abbiamo una battaglia, combattuta principalmente a suon di slogan, contro lo sfruttamento – minorile e non – del lavoro. Queste campagne, ideologicamente lodevoli, si concretizzano, ad esempio, nell’articolo 32 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che recita:
Il lavoro minorile è vietato. L’età minima per l’ammissione al lavoro non può essere inferiore all’età in cui termina la scuola dell’obbligo, fatte salve le norme più favorevoli ai giovani ed eccettuate deroghe limitate.
I giovani ammessi al lavoro devono beneficiare di condizioni di lavoro appropriate alla loro età ed essere protetti contro lo sfruttamento economico o contro ogni lavoro che possa minarne la sicurezza, la salute, lo sviluppo fisico, psichico, morale o sociale o che possa mettere a rischio la loro istruzione.
La contraddizione diventa evidente quando si iniziano a considerare i numeri. Si stima infatti che in Europa il 3,9% dei lavoratori sia sottoposto ad un regime di sfruttamento. Secondo il report di Save the Children del 2021, in Europa il traffico di esseri umani produce circa 29,4 miliardi di euro di profitti. I casi emersi nello stesso anno, solo in Italia, ammontano a 1.911, dove i minori rappresentavano il 3,3%.
Chi ne beneficia?
Il paradigma applicato è quindi molto semplice: le leggi del mercato contemporaneo-capitalista richiedono una produzione continua di beni (sia alimentari che non). Dall’altra parte, però, i costi di questa stessa produzione, nei Paesi che devono rispettare i diritti dei lavoratori, aumentano. Soprattutto le multinazionali scelgono di ovviare a questo “problema” spostando le sedi produttive in quei Paesi in cui la legislazione in materia permette lo sfruttamento.
La delocalizzazione diventa il primo passo per ottenere mano d’opera a basso costo, in particolare in quei Paesi dove, appunto, con vuoti legislativi a riguardo. Multinazionali italiane e non, quindi, scelgono di “assumere”, in condizioni disumane, anche bambini e bambine per abbattere i costi di produzione. Si scelgono per la maggior parte Paesi africani, asiatici e dell’America latina. Si stima che il 90% della manodopera minorile si concentra in questi tre continenti.
Alcune multinazionali colpevoli
È certamente difficile avere dati certi e aggiornati rispetto a quanti giovani vengono effettivamente impiegati nello sfruttamento minorile per la produzione di beni. Per citare solo alcune aziende, si trovano quelle con un fatturato maggiore e presenti – come anticipato – in tutto il mondo.
Si pensi al marchio Victoria’s secret, che fino al 2008 si dichiarava “fair trade”, dicitura che dovrebbe garantire la mancanza di sfruttamento all’interno delle piantagioni di cotone. Stando però ad indagini più approfondite avvenute quell’anno, è emerso come il trattamento dell’azienda riservato ai suoi lavoratori fosse in realtà nient’altro che sfruttamento. Victoria’s secret infatti sfruttava spesso minori del Burkina Faso per risparmiare sui costi di produzione. Per ovviare allo scandalo, la soluzione migliore è apparsa quella di eliminare la dicitura “fair trade”.
Per rimanere nell’ambito della moda, un secondo esempio è Forever 21, accusato di sfruttamento – anche minorile – nei campi uzbeki. Il caso di questo Paese è particolare, dal momento che, fino a poco tempo fa, nel mese di ottobre le scuole venivano chiuse appositamente per impiegare gli studenti nei campi di cotone. Dal 2017 (per fortuna) un cambio di governo ha permesso la regolamentazione di questo fenomeno. Il governo ha infatti preso provvedimenti per tutelare le categorie a rischio e innalzato i salati per i lavoratori.
Questi sono solo due esempi, ma i casi sono fin troppo numerosi e riguardano ogni settore del mercato, dalla Philip Morris alla Coca Cola.
Un mercato così serrato può essere contrastato?
Gli esempi di sfruttamento minorile del lavoro dovrebbero servire a prendere coscienza di un problema che non si è risolto storicamente. Ci ostiniamo ad aggrapparci all’idea di un progresso che porterà benessere a tutti e tutte, ma spesso non vogliamo vedere oltre il nostro naso. Il sistema in cui ci troviamo, consumista e capitalista, funziona solo a patto che il benessere sia disponibile esclusivamente per una parte di noi. Lasciamo il peso dei nostri vizi, l’ultimo modello Apple o l’acquisto in negozi di fast fashion, sulle spalle di altri. E questi altri sono gli sfruttati, invisibili, bambini e bambine costrette a rinunciare alla propria infanzia per 15 ore di lavoro giornaliero e sottopagato.
La domanda a questo punto dovrebbe essere: noi cosa possiamo materialmente fare? Singolarmente è impossibile fermare catene come Coca Cola, quindi l’unica (forse) via è quella di una presa di personale (e anche morale). La rinuncia nel dare, anche se si tratta di pochi euro, l’ennesimo contributo ad aziende che lucrano sulla pelle di chi sa non potersi ribellare. Rifiutarsi, con quei pochi euro di foraggiare un sistema malato e violento, che sembra voler rimanere tale.