Quante volte ci siamo trovati a leggere geniali commenti, intrisi di ironia su film, serie tv, libri, personaggi pubblici e chi ne ha, più ne metta?
E quante volte, sistematicamente, come dire… i commenti degenerano nelle più varie forme di bullismo digitale?
In fondo siamo ben coscienti che il troppo stroppia, ma certi limiti non sembrano essere più così chiari.
Allora che cosa dovrebbe fermarci dalla burla pesante?
Se improvvisamente ci ritroviamo a pensare: “ma dai, è solo online!”, dobbiamo ammettere che forse la situazione comunicativa ci confonde e depista.
Parliamo quindi dello sfottò sui social e le sue controindicazioni.
Lo sfottò sui social non è il male
Chiariamo fin da subito che il problema non nasce per lo sfottò, ma sono le conseguenze ad aver bisogno di una più attenta analisi.
Siamo stati gettati in una società alla mercé della tecnologia. Lo scherzo non è relegato alla sola sfera “face to face”, ma abbraccia tutti i campi della comunicazione, quindi anche i colossi dei social network.
Che bella parola, comunicazione! Quand’è che si comunica qualcosa?
Comunicare ha una doppia funzione: trasmettere un’informazione ed avere l’intenzione di farlo. Noi quindi informiamo con intenzionalità.
Ogni qualvolta si crea un meme, una vignetta, un post umoristico oppure si commentano foto o video di persone che conosciamo, non conosciamo, e ancor di più appartenenti alla sfera pubblica, -e lo si fa con ironia- allora si ha una particolare intenzione: fare un’affermazione che vuole divertire il pubblico digitale.
Ma quali sono gli effetti collaterali di questo sfottò sui social?
Le massime di Grice e la responsabilità di chi parla
Il filosofo inglese Herbert Paul Grice scrisse, negli anni ’70 del secolo scorso, un interessante saggio dal titolo “Logic and Conversation”, dove esponeva una fortunata classifica di massime comunicative.
Generalmente un parlante, quando comunica, partecipa ad un patto comunicativo che prevede uno sforzo di cooperazione da parte degli interlocutori.
Significa che tutti, quando parliamo, o interpretiamo un discorso, cerchiamo di sforzarci al meglio nella comprensione e nell’essere pertinenti.
Le massime hanno un po’ la funzione dei comandamenti per un comunicatore:
Sii pertinente al contesto, sii chiaro, non eccedere, sii sincero.
Alla base di queste massime, che sono tra l’altro continuamente infrante, vi è un concetto che naviga sott’acqua ma che ci riguarda: la responsabilità. In qualunque ambito comunicativo, siamo responsabili di ciò che diciamo. Le parole hanno un peso e, mi dispiace ricordarlo, il “fattore digitale” non ci rende meno parlanti e neanche meno responsabili.
Lo sfottò sui social è una latente forma di cyberbullismo
Quando veniamo meno alle nostre responsabilità, e in qualche modo concepiamo internet come un contenitore dove tutto è concesso, allora, in questi casi di falsa democrazia, ci piace sconfinare certi limiti -che conosciamo piuttosto bene- ed iniziamo ad usare la parola in maniera impropria, con acidità e spocchia.
Sconfinare è sinonimo, in questo caso, di degenerazione. Ed è proprio dalla degenerazione, e dall’incompetenza, che i fenomeni di discriminazione si radicalizzano.
Dietro ad una tastiera, dire la propria è una libertà che ci sembra appartenere in tutte le sue sfaccettature. Dimentichiamo però che il linguaggio è una potente forma di identità. Le parole quindi, ancora una volta, ci identificano.
Quindi, se fenomeni di cyberbullismo si rafforzano perché si è incoscienti del proprio ruolo all’interno della società del digitale, vi è un nuovo problema, ancor più grande di quanto non lo sia di per sé in un incontro fisico.
“I bambini e i ragazzi sono fortemente esposti al linguaggio ostile che si sviluppa sulla rete e che vivono sia personalmente che attraverso le esperienze dei loro amici. Basti pensare che al 29% dei bambini e dei ragazzi è capitato personalmente di leggere commenti violenti nel corso di una conversazione su una chat o su un social network e che al 13% è capitato di ricevere da parte di persone conosciute su Internet, foto o video particolarmente violenti che li hanno fatti sentire a disagio”.
Questo è il commento di Raffaela Milano, direttore dei Programmi Italia-Europa di Save the Children.
La contaminazione della parola
La discriminazione che si porta dietro la parola, contamina e non colpisce solo le fasce più giovani. Questi fenomeni sono continui soprattutto per i personaggi pubblici, che lottano sistematicamente contro l’ingerenza dei commenti diffamatori.
A dirla tutta, siamo in un’area priva di buon senso. Sembra quasi che online, l’individuo smetta di funzionare come persona umana, dotata di sentimenti, frustrazioni e contraddittorietà.
Esprimere la propria opinione non significa innanzitutto, rispettare quella altrui?
Ogni tipo di degenerazione diventa una nuova gabbia per l’uomo, ed è per questo che la libertà di espressione non c’entra proprio niente quando l’insulto ha la meglio.
Questo è di certo un grave problema socio-culturale.
Una soluzione la si trova pensando al nostro ruolo di parte dinamica e viva della collettività a cui apparteniamo.
Maria Pia Sgariglia