La Serbia è un Paese che da anni affronta una situazione – entro i suoi confini – spesso ignorata nelle analisi geopolitiche internazionali. In questi giorni, però, si sta delineando un accordo che potrebbe portare alla tregua tra Belgrado e Pristina.
Belgrado e Pristina: le due anime serbe
L’area dei Balcani è da sempre, dalla disgregazione della Jugoslavia agli inizi degli anni ’90, luogo di tensioni e scontri anche sanguinosi. Le ostilità non riguardano solamente Nazioni, ma ci sono casi, come quello della Serbia, in cui lo scontro ha luogo all’interno dei confini nazionali. All’interno dello Stato serbo, a sud, vi è una regione che da anni richiede, se non l’indipendenza, almeno il suo riconoscimento: il Kosovo. La zona ha intrapreso questo processo di “separazione” dal 1999, anno della fine della guerra del Kosovo, che ha visto un epilogo solo con l’intervento della NATO. Il Kosovo spinge dal 2008 per ottenere l’indipendenza dalla Serbia, ma i primi segnali concreti si sono visti dal 2013, con un primo accordo per la normalizzazione dei rapporti.
Solo dopo 10 anni, quindi, questi accordi sembrano giungere ad una realizzazione, anche a partire dalla spinta dell’Unione Europea. Questo chiaramente non significa che in questi anni non ci sono stati tentativi di allentamento delle tensioni. Il più recente risale infatti all’anno scorso, con la risoluzione di un contrasto che riguardava le targhe. Il motivo di scontro tra Belgrado e Pristina era più simbolico che pratico: riguardava infatti il riconoscimento dell’autorità dell’altro Stato.
La mancanza del mutuo riconoscimento
La separazione del Kosovo dal resto del Paese, come anticipato, ha avuto luogo nel 2008 e le motivazioni sono state primariamente etniche e religiose. All’interno della regione, quattro municipi settentrionali risultano però a maggioranza serba. Qui, quindi, la Serbia ha mantenuto le proprie istituzioni: la presenza del Ministero della Salute, la circolazione di denaro serbo e, fino a poco tempo fa, la circolazione di targhe serbe. Quello che Pristina vorrebbe, è quindi sì un’indipendenza rispetto alla Serbia, ma accordando l’autonomia delle minoranze della regione.
Il problema sarebbe quindi facilmente risolvibile, sancendo la nascita di uno Stato kosovaro indipendente, ma che si impegna a rispettare i diritti dei cittadini serbi. Questa soluzione – forse riduttiva delle tensioni tra Belgrado e Pristina – è ostacolata in particolare da Aleksander Vučić, presidente serbo. Figura poco attenzionata dai media nostrani, assume una linea di governo simile a quella di Orban e perfino Putin. È infatti un leader autoritario, che ha portato il livello di democratizzazione del Paese ad un livello talmente basso da non poter essere ammesso nell’UE. Ostile quindi al riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente, vorrebbe però la dichiarazione dell’autonomia municipale dei quattro comuni a maggioranza serba. La posizione di Vučić è perciò contraddittoria: non è possibile che il Kosovo riconosca l’autonomia dei quattro municipi, senza che prima non le venga accordata l’indipendenza.
L’unione Europea come mediatrice
Fin dall’inizio di questo scontro, l’UE è stata in prima linea per arrivare diplomaticamente ad un accordo. I motivi sono principalmente due. La funzione di mediazione può essere in primis un modo per affermare la propria influenza in un territorio in cui ha sempre faticato ad affermarsi. Nella figura di Josep Borrell, si sta infatti cercando un punto di incontro tra Vučić e Albin Kurti, primo ministro kosovaro dal 2021. In secondo luogo, questo è forse il momento migliore per arrivare ad un accordo, vista la Russia da sempre attenta in queste zone.
La proposta europea si può riassumere in 11 punti. La formulazione di questi è stata possibile grazie al riconoscimento di tutti e 27 gli Stati UE del Kosovo. I punti principali toccano il riconoscimento dei documenti e simboli nazionali, in un’ottica di pacifica convivenza, rispettando così l’autonomia e l’integrità territoriale dello Stato confinante. La Serbia non potrà opporsi all’adesione kosovara a organizzazioni internazionali – con particolare riferimento alle procedure di ammissione nell’UE. Il Kosovo, dalla sua parte, deve assicurare il rispetto delle comunità serbe sul suo territorio. Gli articoli, quindi, mirano ad una normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina.
La presenza russa
Questa situazione può apparire idilliaca: due Stati che stanno per firmare un accordo che metterà fine alle tensioni. Le prospettive di successo possono quindi apparire buone, considerando anche che l’opposizione di Vučić è limitata dai benefici che trarrebbe dall’intervento europeo. Come anticipato prima, però, c’è un quarto protagonista in questa storia che potrebbe mischiare di nuovo le carte in tavola: la Russia.
Gli Stati Balcani sono un’area storicamente influenzata dalle politiche di Putin e dei suoi predecessori, ma questi Paesi ne traggono pochi benefici materiali. La Russia offre infatti solo accordi vantaggiosi per quanto riguarda, ad esempio, il petrolio: ciò di cui è davvero interessata è il non-riconoscimento del Kosovo. È stata infatti in prima linea per rendere più difficoltoso l’ottenimento dell’indipendenza da parte della regione, imponendosi quindi con blocchi diplomatici tra Belgrado e Pristina.
L’accelerazione di quello che si può definire un accordo di pace, quindi, non può sicuramente far piacere al Cremlino. Il successo dell’accordo implicherebbe infatti il trionfo dell’UE come mediatrice e quindi una sua “affermazione” nel cuore dei Balcani. Significherebbe un avanzamento occidentale (più diplomatico che fisico) in territori filo-russi (Vučić infatti è dichiaratamente filo-putiniano). Se questa mossa europea verrebbe vista in generale come un tentativo di infiltrazione in territori “nuovi”, la risonanza che ha in questo momento storico è enormemente amplificata.
Nonostante la rifinitura e la firma dell’accordo sembra già cosa fatta, è però necessario tenere in considerazione i possibili tentativi di Mosca di far naufragare la pace. L’UE, e la Serbia con lei, potrebbero essere accusati dalla Russia di un attacco a territori che Putin considera “suoi”, esacerbando gli equilibri già precari dati dalla guerra russo-ucraina.