Da decenni i civili palestinesi sono soggetti a prassi di detenzione amministrativa, senza processo o accuse formali, disposte dal governo d’occupazione israeliano. Lo sciopero della fame intrapreso dai detenuti ha da sempre rappresentato una forma di resistenza non-violenta e di protesta contro gli arresti arbitrari ed i continui soprusi nelle carceri.
A partire dal 1967, anno in cui Israele occupò i territori del West Bank, di Gerusalemme Est e Gaza, migliaia di detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane hanno fatto ricorso allo sciopero della fame come forma di protesta e di rivendicazione di diritti individuali e collettivi. Le condizioni di vita nelle prigioni israeliane sono, infatti, segnate da ripetuti abusi e violenze, e sempre più frequentemente le autorità militari si servono della detenzione amministrativa per eseguire arresti arbitrari.
La detenzione amministrativa
Riappropriatosi di una pratica coloniale stabilita al tempo del mandato britannico in Palestina, Israele ha largamente adoperato la politica delle detenzioni amministrative come strumento di oppressione e tortura psicologica. Questa pratica permette alle autorità militari di trattenere i palestinesi sulla base di “informazioni segrete”, senza lo svolgimento di un processo o alcuna formalizzazione di accuse. In nome di oscure ragioni dettate da “motivi di sicurezza”, centinaia di donne, uomini, persone anziane e bambini si ritrovano così ogni anno, senza conoscere le motivazioni, a languire a tempo indeterminato nelle carceri israeliane.
L’ordine di detenzione può essere rinnovato indefinitamente ogni 6 mesi e, nella maggior parte dei casi, la proroga della prigionia viene comunicata proprio nel giorno in cui dovrebbe avvenire il rilascio. Come sottolinea il report di Addamer – Associazione palestinese per il supporto ai prigionieri e la tutela dei diritti umani-,
La detenzione amministrativa è configurata per punire collettivamente i palestinesi e, nello specifico, colpisce gruppi particolarmente vulnerabili, come ex-detenuti, bambini, persone anziane e malati.
Il 2022 ha già segnato un triste record, registrando in solo 8 mesi più di 1600 ordini di detenzione amministrativa emanati dal commando militare israeliano. Attualmente, sono circa 800 le persone trattenute in stato di detenzione amministrativa, tra le quali vi sono minori e prigionieri affetti da disturbi cronici e gravi condizioni di salute.
Israele continua così a negare la tutela dei diritti fondamentali ai prigionieri, rendendosi colpevole di ripetute violazioni di trattati e convenzioni internazionali, dallo stesso ratificati.
Lo sciopero della fame come forma di resistenza non-violenta
Per queste ragioni, un’ondata di scioperi della fame intrapresi dai detenuti palestinesi ha letteralmente colpito le prigioni israeliane. Questa forma di protesta non è nuova, ma profondamente radicata nella “cultura di resistenza” diffusa in tutto il mondo. Spesso però, le immagini dei corpi ridotti a scheletri e dei volti emaciati dei palestinesi ottengono scarsa risonanza mediatica.
La decisione di intraprendere lo sciopero della fame rappresenta un’estrema forma di protesta non-violenta, un tentativo di attirare l’attenzione della comunità internazionale sulle ingiustizie e le violenze perpetrate dall’occupazione israeliana. Tale decisione sancisce la volontà di prendere il controllo su almeno un aspetto della propria vita, il corpo, in un luogo dove Israele controlla quasi tutto.
Come scrive Richard Falk, i palestinesi che avviano uno sciopero della fame
sono profondamente consapevoli che questa scelta rappresenta l’ultima risorsa possibile, mostrando una forte volontà di sacrificare il proprio corpo e, addirittura, la vita stessa, in nome di obbiettivi ritenuti più importanti.
Gli scioperi non hanno come unico fine la scarcerazione del singolo o il miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti. I digiuni estenuanti rappresentano l’ultimo appello che il popolo palestinese, anno dopo anno, continua a rivolgere al mondo intero:
Vi chiediamo di non lasciarci morire nel deserto. Tutto quello che domandiamo è aria da respirare (…).
Lettera dei detenuti della prigione di Nafha, pubblicata nel giornale al-Ittihad, 1980
I detenuti palestinesi continuano lo sciopero della fame
Gli scioperi della fame individuali e collettivi sono ricorrenti nella storia delle prigioni israeliane, ma, negli ultimi anni, sono rapidamente aumentati. Questa crescita esponenziale è avvenuta in reazione ai ripetuti abusi, da parte delle autorità militari, della pratica della detenzione amministrativa. Se nel 2021 circa 60 palestinesi avevano intrapreso individualmente uno sciopero, questo numero è già stato ampiamente superato tra il gennaio e l’ottobre dell’anno corrente.
Lo sciopero più recente è stato avviato il 25 settembre da 30 detenuti nella prigione di Ofer, vicino a Ramallah. Dopo pochi giorni dall’inizio, altri 20 scioperanti si sono uniti in protesta. Il 6 ottobre oltre 900 prigionieri nel medesimo istituto penitenziario hanno deciso di supportare l’azione dei propri compagni, rifiutando per 24 ore i pasti giornalieri. Il digiuno collettivo è stato infine interrotto il 13 ottobre, dopo 19 giorni. Israele ha infatti promesso di discutere il possibile rilascio immediato dei detenuti malati e di quelli più anziani, inclusi donne e bambini.
Questa vittoria apparente rischia, tuttavia, di rimanere effimera, così come tante altre in precedenza. Non è la prima volta che le autorità israeliane annunciano un rilascio o prospettano un possibile dialogo. Anche quando la scarcerazione avviene, spesso non trascorrono che pochi mesi fino ad un nuovo ordine di detenzione amministrativa.
La detenzione amministrativa di Abu Hawash
E’ il caso di Abu Hawash, ex-detenuto, arrestato nuovamente lo scorso 20 settembre, durante un raid notturno in West Bank. Padre di 5 figli, originario di Dura, Hawash era già stato precedentemente sottoposto a detenzione amministrativa nell’ottobre 2020, senza un processo o delle accuse formali.
Per protesta cominciò così uno sciopero della fame, che si protrasse per ben 141 giorni, nel corso dei quali si dovette ricoverarlo in ospedale. Hawash però, si rifiutò sistematicamente di sottoporsi alle cure, fino a che, date le condizioni critiche e le crescenti proteste della società civile, le autorità israeliane cedettero. Il rilascio fu concordato per il febbraio 2021 e Abu spezzò il digiuno.
La libertà, se così si può definire la vita al di là delle sbarre in Palestina, non è stata che un miraggio. Il nuovo arresto arbitrario di Abu Hawash non ha fatto altro che riconfermare la spirale di violenza e tortura psicologica in cui Israele imprigiona da oltre settant’anni i cittadini palestinesi.
Khalil Awawdeh e lo sciopero tradito
Ancora più amari sono stati gli eventi che hanno seguito lo sciopero della fame portato avanti dal detenuto Khalil Awawdeh. Originario di Ithna, a sud della città di Hebron, padre di quattro figli, fu prelevato dalle forze israeliane nel dicembre del 2021. Trattenuto a sua volta in uno stato di detenzione amministrativa nella prigione di Ramleh, Awawdeh si è impegnato in uno dei digiuni più lunghi nella storia degli scioperi della fame in Palestina.
Grazie alla visibilità raggiunta sulle pagine dei social media, come Palestina Online su Twitter, o EyeOnPalestine su Instagram, la protesta ha ottenuto grande risonanza mediatica, suscitando l’indignazione a livello mondiale.
Il governo israeliano ha però ignorato i ripetuti appelli, fino quando, ancora una volta, le condizioni psico-fisiche del detenuto hanno raggiunto il limite. I lunghi mesi di digiuno hanno provocato danni irreparabili al sistema nervoso e agli organi interni. Solamente una volta concordato il rilascio, previsto per lo scorso 2 ottobre, Awawdeh, il 31 agosto, ha interrotto lo sciopero della fame dopo 172 giorni.
Pochi giorni prima della data stabilita per la scarcerazione però, la corte israeliana ha rifiutato il rilascio, rinnovando la detenzione amministrativa fino al prossimo 6 novembre. Awawdeh ha prontamente dichiarato di essere disposto a riprendere lo sciopero della fame nel caso in cui gli accordi presi non vengano rispettati. Una fragile canna può dunque resistere, senza spezzarsi, all’irruenza della tempesta.
Eva Moriconi