Lo Stato non può dire: fai l’abortista se non vuoi morire

I cittadini che, per obbedienza alla coscienza, nell’esercizio del diritto alle liberta’ di pensiero, coscienza e religione riconosciute dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle liberta’ fondamentali e dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici…” E’ questa l’introduzione del primo dei quattro articoli della legge n. 413 del 12 ottobre 1993, che introduce l’obiezione di coscienza per ricercatori universitari, medici, personale sanitario che all’interno di qualsiasi struttura si occupano di sperimentazione sugli animali. E salta subito agli occhi, per quanto possa sembrare un accostamento provocatorio, il riferimento a cui si appoggia il diritto all’obiezione di coscienza. Un riferimento tipicamente liberale: esiste una sfera di pensiero, valori, principi che pre- scinde lo Stato e che lo Stato non può far altro che riconscere.

Facciamo un salto indietro dalla 413 del ’93 alla legge 194 del ’78 e il riferimento di fondo è sempre lo stesso: ci sono temi su cui lo Stato fa un passo indietro e rispetta gli orientamenti della persona e i suoi valori. Ecco perché l’Azienda Sanitaria del Lazio e l’Ospedale “San Camillo” di Roma farebbero bene a fare un passo indietro sul concorso per l’assunzione di due ginecologi che chiude le porte agli obiettori: è un atto di discriminazione che tradisce lo spirito della 194 e fa crollare un patrimonio dello Stato liberale, quale la libertà di coscienza. Un patrimonio, è bene ribadirlo, “laico”, che ha le sue radici nei padri del pensiero liberale che, dalla Rivoluzione Francese in poi, affermarono che ci sono pensieri, valori e diritti che lo Stato non può sopraffare in nome di un interesse generale.

La vicenda del San Camillo crea un duplice contrasto con lo spirito della legge 194 e con lo spirito della stessa Carta costituzionale. In primo luogo sancisce un trattamento discriminatorio verso alcuni professionisti rispetto ad altri, basato su un orientamento di pensiero, che attiene ai valori più intimi: è come discriminare per le scelte sessuali, per il credo religioso, per la propria visione della vita.. E a chi liquida la questione all’insegna del “non puoi essere obiettore e lavorare in un ospedale pubblico”, si può far notare un dato, al tempo stesso storico, valoriale ed estremamente concreto: l’obiezione di coscienza nasce, si afferma e si reclama continuamente proprio nei confronti dello Stato. E’un atto di libertà, di riaffermazione del primato della persona anche sulle ragioni dello Stato inteso come macchina organizzativa. O meglio il dovere di uno Stato di far convivere liberamente interessi comuni legittimi ed orientamenti personali.

Non si possono ghettizzare i medici obiettori, né confinarli in strutture private. Sarebbe come ripetere la frase che il proconsole romano Dione rivolse a quello che viene considerato il primo obiettore della storia, Massimiliano Di Tebessa: “Fa’ il militare se non vuoi morire”. Sarebbe svuotare di senso e perdere una battaglia “laica” per uno Stato liberale che credenti e laici hanno combattuto insieme, su fronti diversi e per interessi diversi, dal servizio militare ai limiti alle invadenze dell’autorità pubblica nella vita privata delle persone. Con un obiettivo comune: salvaguardare il diritto sacrosanto alla libertà di coscienza. Nel 2017 lo Stato Italiano bestemmierebbe se, come Dione, ripetesse: fai l’aborista se non vuoi morire.

Salvatore D’Elia

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