Lo stato d’eccezione al tempo dei social

socia

Non ho né gli strumenti (come la maggior parte di tutti noi) per valutare a caldo gli ultimi accadimenti, né l’inarrestabile e insopprimibile incombenza di esprimere opinioni, congetture, previsioni e analisi strategico-geopolitiche sul terrorismo internazionale. Tantomeno ho la perniciosa necessità di mostrare immagini di vittime innocenti o di scrivere accorati e strappalike “post” sui social network.

Se vivo un dolore profondo, un senso incolmabile di cordoglio e rabbia, questi sono anche in parte incomunicabili, indicibili e, soprattutto, intimi. E, forse, in questi casi, una coscienza nuda e in lacrime gradisce restare tale.

In questo momento ho solo la terribile sensazione che qualsiasi cosa si faccia sul web, o su qualsiasi altro strumento di informazione, non sia altro che una caotica coazione a ripetere che, paradossalmente, non avvantaggia nessuno, forse solo il diffondersi dello stato d’eccezione.

Anzi, ogni virgola dedicata a ciò che già tutti abbiamo visto, sappiamo e temiamo, sembra che vada inevitabilmente in sole due direzioni, e nessuna di questa viene incontro alla verità: innanzitutto il cordoglio a distanza ci porta inevitabilmente ad una rassicurante ipocrisia: “che tragedia!  Per fortuna  è capitata ad un noi vicino ma non a me”; e, in secondo luogo,non posso fare a meno di constatare  che  l’inevitabile propensione a esprimere accorate emozioni  è molto meno faticosa e più soddisfacente  (in termini di apprezzamento social)  rispetto alla necessaria volontà di capire e conoscere, di approfondire e valutare con mente lucida. Anche qui mi ripeto: l’immediatezza del tragico ci ispira e ci coinvolge più della “volontà di sapere”.

Tutto questo è il frutto di un arretramento culturale prodotto da una cosiddetta “ignoranza di ritorno”. L’ignoranza contemporanea non consiste semplicemente nel non sapere, ma nell’esser convinti aprioristicamente di sapere : questo ci spinge ad “evitare di riflettere, di andare a fondo, e “in massa” ad accodarci a coloro che fanno più audience, contribuendo così a creare una ansiogena e caotica costellazione di frammenti di paure, di dolori e di disparate riflessioni personali che vanno ad aggiungersi alla realtà rendendola inutilmente  bulimica, gonfia di paure, di rabbie, di analisi apocalittiche o guerrafondaie – a seconda delle propensioni personali – che andranno ad esaurirsi inevitabilmente nel giro di qualche giorno per poi venir ripescate “ad hoc” alla prossima e sanguinosa occasione utile o negli anniversari collettivi.

Nulla di tutto questo è approfondimento, volontà di conoscere, di capire. Siamo davanti a un folle circo di esternazioni prodotte per generare effetti. Un metodo di deformazione del reale  al quale siamo chiamati a partecipare, altrimenti rischiamo di sembrare “indifferenti”, insensibili, se non addirittura “conniventi”.

Tutto questo sarebbe nulla se il “metodo” restasse limitato ai social, dove ogni cento like scatta l’inutile bonus di virtuale autostima, ma purtroppo  è tragicamente valido in tutti gli odierni strumenti di comunicazione.

Nessun approfondimento è un reale approfondimento, ma un’accozzaglia di personaggi pagati, più o meno noti, che si parlano addosso: dei contenitori sponsorizzati, delle piccole fabbriche di Share la cui principale preoccupazione non consiste nel “fare informazione” ma nell’immobilizzare lo spettatore in vista dei “consigli per gli acquisti”.

Così una terrificante tragedia è bene che resti un’inguaribile ferita aperta – basta anche quel preoccupante pizzicore che la tiene sempre sveglia – o che le parti oscurate di un filmato aberrante ci spingano al malsano desiderio di andarcelo a cercare in rete per restare atterriti con macabra soddisfazione, di modo che ogni nostra accorata partecipazione di trasformi in un atterrito voyerismo che declina inevitabilmente in pessimismo catastrofista. Tutto è successo, nulla ci è rimasto se non la latenza cronica della paura che si esaurisce in un macabro e interminabile stato d’ansia.  Chi di noi ricorda i nomi delle vittime, sempre più numerose?  Ci viene più facile generalizzare, ricordare i luoghi, i mezzi usati dai carnefici, le apocalittiche circostanze. Non è colpa nostra, non possiamo ricordare tutti i nomi delle lapidi di un cimitero, molto più semplice e  sbrigativo restare sull’effetto, e perché no, anche più utile a chi ha interesse nel mantener vive le paure. Siamo impotenti e chiacchiericci spettatori dei nostri stessi dolori, testimoni delle nostre stesse paure.

Fonte foto: deviantart

 

commenta: Lo stato d’eccezione al tempo dei social

Exit mobile version