UE e Balcani occidentali cominciano a mettere i primi mattoni della cooperazione economica in progetto dal 2018, ma la Serbia sembra propensa a ballare da sola sul suo litio, seducendo attori lontani dal gruppo dei 27.
L’ultimo punto sull’asse UE – Balcani occidentali
Mercoledì 18 dicembre a Bruxelles si è tenuto il quinto vertice annuale tra l’Unione Europea e i 6 Paesi dei Balcani occidentali (Kosovo, Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro e Serbia) – il primo organizzato dal nuovo Presidente del Consiglio europeo ed ex Primo ministro portoghese Antonio Costa.
Il vertice precedente, datato 14 e 15 dicembre 2023, si era chiuso con la dichiarata intenzione congiunta di procedere con “progressi rapidi e sostenuti verso il pieno allineamento” sulla Politica estera e di sicurezza comune (Pesc), al fine di realizzare, secondo le parole di Charles Michel, ex Presidente del Consiglio europeo, “un’ integrazione graduale esplicitata in modo concreto”.
La necessaria concretezza sarebbe offerta dal Piano di crescita per i Balcani occidentali, proposto dalla Commissione nel novembre 2023 e definitivamente approvato nell’aprile dello stesso anno, che costerà all’UE 6 miliardi di euro per il periodo 2024-2027, da erogare sotto forma di prestiti e sovvenzioni vincolati all’attuazione delle riforme socio-economiche concordate in un’Agenda specifica. Successivamente, il 14 ottobre 2024, si è svolto a Berlino il summit UE-Balcani occidentali nell’ambito del Processo di Berlino – un progetto europeo nato nel 2014 su iniziativa dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel, e dettato dalla stessa esigenza di accelerare
l’ingresso dei Paesi dei Balcani occidentali nell’Unione, favorendo un allineamento economico che fatica ad arrivare, e che dovrebbe risultare dalle riforme previste nel suddetto Piano.
Il 18 dicembre al vertice di Bruxelles si è fatto il punto, plaudendo “a 5 partner per la preparazione e la presentazione dei rispettivi programmi di riforma, approvati dalla Commissione, che costituiranno la base per l’attuazione del Piano di crescita”. All’ordine del giorno c’erano anche temi di cooperazione strategica sulla politica estera e sociale, che scandivano il tempo di una musica familiare e piuttosto monotona.
Qualche tono differente, tuttavia, faceva suonare l’intero discorso ancora più astratto e retorico del solito. Probabilmente ciò si deve soprattutto al fatto che la Serbia – il cui peso nel confronto con gli altri Stati candidati a entrare nell’Unione Europea è aumentato esponenzialmente dopo la scoperta, nel 2004, dell’enorme quantità di litio che giace ancora incontaminata nel suo territorio occidentale – appare sempre più insofferente, manifestando una crescente disaffezione verso i piani europei, tanto in fatto di politica estera quanto di
politica economica.
Focus sulla Serbia, uno Stato sempre più ballerino
In effetti è sempre più evidente come l’accordo di cooperazione UE-Serbia non si regga certo su un quadro di valori fondamentali e identificativi dell’Europa e dell’Occidente: piuttosto, sembra invischiato in un coagulo di interessi occasionali di carattere prettamente economico e geopolitico.
Lo chiarisce bene Srdjan Cvijic, ex diplomatico serbo e presidente del comitato consultivo internazionale del Belgrade Centre for Security Policy, che afferma: “La Serbia è più lontana dall’adesione all’UE di quanto non lo fosse un quarto di secolo fa”.
“La Corte costituzionale controllata da Vučić ha revocato una moratoria sull’estrazione del litio ed è arrivata la visita del cancelliere tedesco Olaf Scholz in Serbia il 19 luglio e la firma dell’accordo UE-Serbia per un ‘partenariato strategico’ su materie prime sostenibili, filiere di fornitura di batterie e veicoli elettrici” – spiega Cvijic – “abbiamo avuto manifestazioni ecologiste in tutto il paese. Probabilmente la più grande mobilitazione di cittadini dalla nostra rivoluzione democratica del 2000 […] Il 55-60% si oppone alla miniera di litio […] [perché] anche se fosse possibile estrarre il litio in modo ecologicamente responsabile, il triste record ambientale del governo di Vučić non offre alcuna garanzia che ciò possa essere fatto in Serbia”.
Per mettere meglio a fuoco il sentimento dei serbi verso l’UE, alle proteste popolari contro l’estrazione del litio voluta dal regime – che produrrebbe un inquinamento insopportabile per la piacevole area agricola che circonda il fiume Jadar – si deve aggiungere la forte ambiguità della partita giocata dalla Serbia in politica estera – la quale, pur nella prospettiva del multilateralismo, sembra più un ballo di gruppo che un sistema di alleanze.
Vučić, infatti, mentre occhieggia l’Unione Europea, continua ad avere una stretta relazione economica e politica con la Cina, che per i suoi costanti e generosi investimenti nello sviluppo delle infrastrutture, dello sport, della cultura e della tecnologia del Paese balcanico è stata ufficialmente riconosciuta dal Presidente serbo come “principale investitore e secondo partner commerciale della Serbia“.
Ma Vučić non ha interrotto nemmeno il rapporto storico e culturale che lega la Serbia alla Russia, e in tal senso procede a grandi passi nella direzione opposta a quella che sta percorrendo l’UE. Non solo ha rifiutato di aderire alla politica europea delle sanzioni contro Mosca: ha anche concluso un accordo con Putin per garantirsi 3 anni di gas russo a condizioni favorevoli, ha autorizzato la presenza sul territorio serbo dell’emittente russa
Russia Today Balkan – già bandita dall’Unione a causa della sua attività di propaganda e disinformazione anti-occidentale, e ha rimpinguato l’esercito serbo con il sistema anti-drone Repellent acquistato dalla Russia.
Come se non bastasse, sulla pista della Serbia balla anche la Turchia, altro attore di peso su cui Vučić ha fatto colpo, siglando con Erdoğan 11 accordi e memorandum di collaborazione reciproca in settori strategici come l’occupazione, l’industria e l’energia al fine di rafforzare la poderosa cooperazione militare che già esisteva tra i due Stati.
L’ambivalenza dell’Europa si fa sentire ancora
Insomma, in tutta questa bisboccia geopolitica l’Unione Europea sembra vestire i panni dell’ospite che, ultimo arrivato, si aggira cauto e compiacente, mentre cerca di convincere la Serbia a rafforzare la sua cooperazione economica con il gruppo dei 27 e a lasciar perdere le sue amicizie anti-occidentali.
Tuttavia l’unico risultato certo che finora ha ottenuto è l’aver stabilito con la Serbia un bilateralismo che spicca per la sua ipocrisia, del quale Cvijic offre un quadro piuttosto vivace:
“Nelle ultime elezioni, per evitare di perdere Belgrado, Niš e altre città, il regime ha commesso una frode elettorale palese […] Speravamo che l’UE ci avrebbe sostenuto. A parte la risoluzione dell’allora Parlamento europeo uscente nel febbraio 2024 che riconosceva la frode elettorale, la Serbia democratica è stata lasciata completamente sola.
L’UE si è concentrata sulle proprie elezioni e si è completamente dimenticata della democrazia in Serbia […] Vučić potrebbe essere un bastardo – alcuni nell’UE e negli USA pensano – ma è il nostro bastardo. Sebbene si rifiuti di introdurre sanzioni alla Russia, vende munizioni all’Ucraina, vuole estrarre litio e dice di voler normalizzare le relazioni con il Kosovo”.
Dunque, se da un lato l’Europa di fronte all’assenza di uno Stato democratico estrae il cartellino rosso, sbarrando la strada alla Serbia sul suo cammino verso l’entrata nell’Unione, dall’altro non reagisce mai in concreto alla repressione autoritaria che costantemente opprime il popolo serbo, abbandonando così la propria condanna alla pura disquisizione diplomatica.
Una condanna che, quindi, agli occhi dei serbi appare sempre più come l’espediente che offre all’Europa uno scudo ideale: abbastanza solido da costituire un rifugio sicuro, e al tempo stesso sufficientemente innocuo da poter essere usato per avanzare discretamente tra le piaghe di uno Stato già lacerato, soppesandone le risorse ancora disponibili.