Per la prima volta dal 1978, anno in cui l’interruzione volontaria di gravidanza è stata legalizzata in Italia con la legge 194, l’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha pubblicato una mappa ufficiale delle strutture abortive in Italia, dunque sedi ospedaliere e consultoriali dove è possibile accedere all’aborto, anche in forma farmacologica. Un passo atteso da anni e accolto con favore dalle associazioni per i diritti riproduttivi, che finora si erano affidate a strumenti indipendenti per raccogliere e divulgare queste informazioni.
La novità risiede nella natura istituzionale del documento: finalmente un ente pubblico fornisce un elenco nazionale verificato. Sul sito Epicentro, portale dell’ISS, è consultabile un’interfaccia interattiva divisa per regioni, con i nomi, gli indirizzi e i dettagli delle strutture sanitarie che hanno effettuato almeno un’interruzione di gravidanza nel 2023.
L’assenza cruciale: l’obiezione di coscienza
Nonostante il passo avanti in termini di trasparenza, l’elenco delle strutture abortive in Italia manca di un’informazione decisiva: il numero di medici e personale sanitario obiettori in ciascuna struttura. Questo dato, spesso determinante per capire se un aborto sia realmente praticabile in un dato ospedale, è tuttora assente. Eppure, come sottolineano diverse associazioni e osservatori, l’obiezione di coscienza rappresenta oggi il principale ostacolo all’accesso effettivo all’IVG.
Secondo i dati ufficiali più recenti – quelli del 2022 – alcune regioni italiane come il Molise e la Sicilia registrano tassi altissimi di obiettori, rispettivamente il 90,9% e l’81,5% del personale. In altre, come la Valle d’Aosta e la provincia autonoma di Trento, la percentuale è più bassa, ma comunque significativa (25% e 31,8%). Esistono persino ospedali dove tutto il personale è obiettore: una “obiezione di struttura” di fatto, che rende impossibile accedere all’IVG in loco.
La promessa dell’ISS e il ritardo del ministero
Serena Donati, responsabile del Sistema di Sorveglianza Epidemiologica sull’IVG presso l’ISS, ha assicurato che i dati sull’obiezione verranno resi disponibili appena possibile, non appena il Ministero della Salute li fornirà. Tuttavia, non è stata indicata una data precisa. Questo ritardo non è un’eccezione: da anni le relazioni ministeriali sull’attuazione della legge 194 vengono pubblicate in ritardo, e i dati più recenti sono stati trasmessi all’ISS “in anteprima”.
Questa mancanza di aggiornamenti tempestivi non permette di avere una fotografia reale e affidabile del sistema sanitario. Alcune delle strutture incluse nell’elenco 2023, ad esempio, potrebbero aver smesso di praticare aborti per mancanza di personale disponibile, o perché interi reparti hanno chiuso.
Aborto farmacologico e disinformazione
Un’altra problematica centrale riguarda la disinformazione, che spesso coinvolge anche le modalità dell’aborto. L’aborto farmacologico, ad esempio, è considerato meno invasivo e più sicuro rispetto a quello chirurgico, ma resta ancora osteggiato in molte realtà italiane. Solo poche regioni, come il Lazio e l’Emilia-Romagna, permettono l’assunzione domiciliare del misoprostolo, uno dei due farmaci utilizzati, seguendo le linee guida aggiornate del 2020.
In altre zone, invece, si continua a preferire il metodo chirurgico, spesso per ragioni ideologiche più che mediche. A complicare il quadro, ci si mette anche la disinformazione veicolata da figure pubbliche. Diffusione e dibattiti su informazioni completamente infondate che hanno suscitato polemiche e generato ulteriore confusione tra le donne.
Politiche pubbliche e fondi ai gruppi antiabortisti
Mentre l’accesso all’aborto legale resta ostacolato da una serie di barriere strutturali, il governo in carica ha adottato misure che sembrano privilegiare gruppi antiabortisti.
Anche a livello nazionale, una quota dei fondi del PNRR destinati alla sanità è stata utilizzata per permettere a questi gruppi di operare all’interno dei consultori. L’intento dichiarato è quello di “sostenere le gestanti”, ma di fatto molte associazioni lo interpretano come un tentativo mascherato di dissuadere le donne dal ricorrere all’aborto.
Una fotografia sfocata e le conseguenze
L’elenco dell’ISS delle strutture abortive in Italia, sebbene importante, offre una visione parziale della situazione. Manca di dati cruciali come gli aborti terapeutici, praticabili fino alla ventiduesima settimana in presenza di malformazioni gravi o rischi per la salute della madre. Anche in questo caso, nonostante la legge preveda che ogni ospedale sia attrezzato per tali interventi, la realtà è ben diversa: sono poche le strutture effettivamente operative.
Intanto, l’assenza di un servizio capillare e affidabile sta contribuendo a un fenomeno inquietante: la ripresa degli aborti clandestini. Secondo il ministero della Salute, tra il 2014 e il 2016 il numero stimato oscillava tra i 10.000 e i 13.000. L’Osservatorio Permanente sull’Aborto, che include anche organizzazioni cattoliche, conferma che la tendenza è in crescita. Un dato che preoccupa, perché oltre a ledere un diritto fondamentale, espone le donne a gravi rischi per la salute.
Un diritto ancora da difendere
Il censimento delle delle strutture abortive in Italia, autorizzate a praticare l’aborto, rappresenta un tassello importante, ma non risolve il problema dell’accessibilità effettiva. Senza informazioni aggiornate, trasparenti e complete sull’obiezione di coscienza, la legge rimane spesso lettera morta. L’interruzione di gravidanza, pur garantita sulla carta, resta un percorso a ostacoli per molte donne italiane, che si trovano a dover affrontare ritardi, rifiuti e viaggi lunghi per esercitare un loro diritto.