È giunto il momento di ripensare al rapporto tra l’io e il corpo. Si riapre così il perenne quesito: dualismo o coincidenza?
Il corpo: un compagno invisibile?
Riflettiamo mai abbastanza sul rapporto tra l’io e il corpo? Afferma il filosofo tedesco F. W. Nietzsche: “c’è più saggezza nel tuo corpo che nella tua più profonda filosofia”. Davvero? Ma il corpo non è la fonte d’inganno dei sensi, di malattie, passioni incontrollabili e, soprattutto, morte? Non è forse quella parte di noi che ci ricorda della caducità della nostra condizione umana?
A viverci tutti i giorni, nel proprio corpo, non sembra nemmeno di farci caso. Il nostro corpo è sempre lì, pronto per noi, a disposizione; con un gioco di parole potremmo proprio dire “a portata di mano”. Eppure, quando ci ammaliamo, quando lo sentiamo affaticato, quando non ci rimanda nello specchio l’immagine che vorremmo avere, esso ci sembra un limite. Una barriera tra ciò che vorremmo essere, fare e ciò che siamo.
Il rapporto tra l’io e il corpo nella storia:
Nulla di cui stupirci: il rapporto tra l’io – o anima prima e mente poi – con il corpo è una questione che investe millenni di storia della filosofia e non solo. Per esporre un breve excursus ci basti pensare all’etimologia greca della parola corpo. Sόma non a caso detiene un’assonanza non da poco con la parola séma (tomba). Assonanza che certo per alcuni significava qualcosa, tra questi Platone, il quale – non a caso – considerava il corpo la tomba dell’anima.
Nel medioevo la considerazione del nostro corpo non cambia di molto. Basti pensare al corpo come la sede degli istinti, dei peccati, involucro che spesso deve essere castigato per poterne frenare gli istinti che altrimenti oscurerebbero l’anima che deve elevarsi a Dio.
Tutto ciò per giungere poi alla spesso citata divisione cartesiana tra res cogitans (sostanza pensante) e res extensa (sostanza estesa) e all’annosa difficoltà di trovarne un punto d’incontro, quasi una porta d’accesso che permetta alla mente di collegarsi al corpo e viceversa.
In quest’ottica c’è da dire che no, non siamo il nostro corpo se esso appunto ci si pone come ostacolo, come mero contenitore, quando non addirittura come uno strumento verso la perdizione.
È possibile un altro modo per vivere il corpo?
Ma davvero le cose ancor oggi, dopo aver scavallato il II millennio stanno così? Non dovremmo forse scrollarci di dosso una tradizione (qui naturalmente resa in modo estremamente sintetico e stringato) per accogliere un nuovo modo di vivere il nostro corpo?
La nuova pratica medica ci ha portato a superare i limiti a cui esso può porci dinnanzi: si pensi agli atleti paraolimpici che abbiano da poco ammirato, o a strumenti di ogni sorta che possono aiutare il nostro cuore a pompare sangue, il nostro udito ad ascoltare meglio, le nostre braccia a toccare oggetti che prima non potevano nemmeno sfiorare.
Oggi la bioetica deve porsi e porci questi quesiti. In un mondo in cui tutto muta velocemente, in cui la scienza ci pone davanti a possibilità finora impensate è giunto il momento di cambiare sguardo nei confronti del corpo: nostro, vostro, altrui.
Ecco, allora forse è arrivato il momento di riflettere nuovamente sul rapporto tra l’io e il corpo. Non guardare più a quest’ultimo come ad un limite per i nostri progetti, ma come una possibilità per poterli realizzare. Non più quindi un corpo come un fastidioso impiccio alla nostra autodeterminazione, ma come una porta verso la libertà. Ci sarebbe in fondo da chiedersi dove stiano questi limiti che sentiamo: in un corpo inteso come barriera tra il ‘noi’ e il ‘mondo’ o in una mente che pensandoli, li crea e li sostiene?
Caterina Simoncello