L’operazione “Al-Aqsa storm” ha segnato una svolta nello storico conflitto tra Israele e Hamas. Dopo anni di inconcludente lotta armata i vertici dell’organizzazione terroristica hanno avvertito il pericolo che la “causa” dei palestinesi potesse davvero essere destinata alla resa e dunque hanno scelto il martirio, confidando nella feroce risposta dell’esercito israeliano per eternare le loro azioni efferate e rinnovare l’inquietante leadership fatta di politica e terrorismo nella Striscia di Gaza.
Per essere pienamente efficace, ogni organizzazione militare deve essere in grado di adattarsi alla natura del conflitto che affronta. L’adattamento coinvolge quasi sempre tutta una serie di variabili piuttosto complesse che ne modificano l’intera struttura sin nelle sue configurazioni tattiche e nei modelli operativi, in previsione o risposta a specifici cambiamenti esterni. E a giudicare dagli ultimi eventi, l’inquietante leadership di Hamas a Gaza, fondata da anni sul prolifico binomio di politica e terrorismo, sembrerebbe aver interiorizzato alla lettera questo modus operandi nella sua guerra perenne con lo Stato d’Israele.
Se, infatti, le condizioni per la crescita non sono favorevoli, le organizzazioni paramilitari si adoperano in ogni modo per modificarle a loro vantaggio e Hamas non ha rappresentato certamente un’eccezione.
Gli attacchi a “sorpresa” sferrati dai Fedayyin del partito-milizia sunnita palestinese allo stato israeliano lo scorso sette ottobre hanno segnato una svolta nello storico conflitto tra Israele e Palestinesi, confermando la definitiva evoluzione di scenari di guerra asimmetrica anche in quella parte del mondo con buona pace degli Stati Uniti e degli alleati europei ingenuamente convinti di poter gestire un problema che si trascina ormai da settantacinque anni semplicemente supervisionando a distanza un massacro locale a bassa intensità.
Fare di necessità, virtù
Partiamo dai fatti: che la causa dei palestinesi nelle mani dell’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) fosse destinata a una resa, forse, definitiva, è un dato di realtà difficilmente mistificabile. D’altronde, già nel 2002, otto anni dopo gli Accordi di Oslo e la nascita dell’ANP, il Primo Ministro Israeliano Ariel Sharon sentenziava la “morte di Oslo”, impegnandosi a legittimare sul piano politico e militare l’occupazione dello Stato ebraico delle terre altrui.
Tuttavia, per Hamas che è un’organizzazione paramilitare avida di eroismo e di martirio, la deriva degli accordi di Oslo non era sufficiente a garantire la propria sopravvivenza quale unico referente politico dei palestinesi oppressi dal dominio del possente Leviatano ebraico.
E infatti, sin dalla sua formazione, avvenuta dopo lo scoppio della prima intifada dell’8 dicembre 1987, il movimento di resistenza islamica di Hamas ha sempre manifestato una tendenza a espandersi investendo sulla fisiologica differenziazione delle parti in causa nel conflitto israelo-palestinese al fine di rendere più efficace la lotta per la sopravvivenza dei gruppi umani in un ambiente ostile qual è la Striscia di Gaza da settantacinque anni a questa parte.
A ciò si deve aggiungere la cronica debolezza dell’ANP e l’odio scaturito dall’occupazione israeliana dei territori della West bank (Cisgiordania) e della Striscia di Gaza, che hanno impedito il delinearsi di una vera sovranità statuale palestinese, lasciando campo libero ad Hamas di instaurare nei territori controllati, il surrogato di uno Stato parallelo (ma meno corrotto) e fortemente islamizzato che bramava l’olocausto d’Israele più di ogni altra cosa su questa terra.
Disordine locale, pericolo globale
Durante i suoi primi anni di attività, Hamas seppe dissimulare, nelle sue linee programmatiche, la sistematica demolizione dello stato ebraico, concentrandosi simultaneamente sulla fondazione di associazioni di beneficenza e di comitati dell’elemosina legale in sostegno delle famiglie più bisognose e dei disoccupati, oltre ad occuparsi della gestione di asili nido, scuole e ospedali.
Ma nei fatti, l’azione politica dei vertici dell’organizzazione ha sempre cercato di ostacolare il riconoscimento della questione palestinese come una rivendicazione legittima agli occhi della comunità dei Paesi arabi, stroncando sul nascere qualsiasi tentativo di stabilizzare i legami tra le varie anime del popolo palestinese.
Con la guerra dichiarata allo Stato israeliano lo scorso sette ottobre, Hamas ha riaffermato violentemente questa posizione, ricorrendo allo strumento tristemente efficace dell’azione terroristica. Tuttavia, lo scopo degli attacchi contro Israele non era finalizzato a centrare l’obiettivo militare in sé ma a produrre nella vittima la voglia di vendicare il torto subìto.
Gli esponenti di spicco di Hamas hanno impiegato due anni per organizzare minuziosamente questi attacchi, certi che l’efferatezza delle loro azioni avrebbe instillato nell’avversario l’intima giustificazione alla vendetta, alimentando il circolo vizioso di violenza e odio su entrambi i fronti. Non bisogna dimenticare, infatti, che per anni, i vari governi guidati da Benjamin Netanyahu hanno adottato l’approccio del ‘divide et impera’ mettendo in ginocchio il Presidente dell’ANP Mahmoud Abbas attraverso una serie di decisioni sconsiderate che hanno finito per avvantaggiare Hamas, promosso da semplice gruppo terroristico a organizzazione con cui Israele ha tenuto negoziati indiretti attraverso l’Egitto, e a cui è stato permesso di ricevere donazioni di denaro dall’estero.
Perché Hamas rischia di essere l’unico referente istituzionale in Palestina anche dopo questa guerra
Il forte radicamento di Hamas nella Striscia di Gaza, dovuto alla sua grande capacità di relazionarsi direttamente con la popolazione sul piano politico e religioso, l’ha resa negli anni estremamente versatile nel pianificare la propria strategia di guerra totale a Israele.
E tuttavia, da parte di Israele e dei suoi alleati occidentali, il giudizio su Hamas sembrerebbe non tener conto del peso politico che il movimento di resistenza islamica ha assunto nello scenario palestinese. Secondo la dottrina politica israeliana e statunitense e sulla quale sicuramente hanno inciso l‟11 settembre 2001 e la lotta al terrorismo contro al-Qa’ida e le organizzazioni islamiche ad essa equiparate, Hamas è sempre stato un utile strumento da brandire per giustificare la globalizzazione della paura islamista e di concerto le sistematiche occupazioni israeliane dei territori palestinesi.
Certamente, Hamas non sarebbe mai capace di passare, così su due piedi, dalla lotta armata alla risoluzione di una pace negoziata in Medio oriente, com’è accaduto ad esempio con il movimento repubblicano irlandese, soprattutto alla luce degli ultimi attacchi compiuti contro civili inermi. Tuttavia, ciò non giustifica in alcun modo le intrusioni armate portate avanti da Israele nei territori palestinesi. In questi giorni, Israele sta ricorrendo giustamente all’applicazione di una violenza legittima in difesa della propria sovranità barbaramente violata, giustificandola però nell’ottica di una “violenza divina” più riconducibile ad un fantomatico diritto extrastorico in grado di sconfessare il potere del diritto positivo.
D’altronde, è sempre difficile sostenere la legittimità dell’intervento armato di uno stato che negli ultimi settant’anni ha continuato a insediare coloni nelle terre occupate della Cisgiordania contravvenendo bellamente al diritto internazionale e improvvisandosi giustiziere divino. Inoltre, i Palestinesi che vivono nella Striscia di Gaza sono stati già avvisati: alla fine di questa guerra, la loro lingua di terra sarà ulteriormente ridotta per volere unilaterale dei loro carcerieri.
Se la questione palestinese avesse una propria voce e potesse parlare, farebbe sicuramente notare ai tanti giocatori intenti a fare le loro mosse che Israeliani e palestinesi si sono parlati fino ad ora soltanto con il linguaggio della forza, riconosciuto da entrambe le parti come l’unico mezzo legittimo per far valere le proprie ragioni. Per il miliziano di Hamas l’innocente non esiste e lui nel momento in cui uccide diventa eterno. Per lo Stato d’Israele che occupa la Striscia di Gaza e i restanti territori palestinesi, la coerenza dei mezzi e dei fini, ovvero la cornice entro la quale coesistono i discorsi e i comportamenti di chi ha potere di decisione e di comunicazione, sembrerebbe aver trovato la sua ragion d’essere nel diritto del più forte che sovrasta il debole, nella vendetta di Davide divenuto finalmente Golia.
Tommaso Di Caprio