Obbligati a fare i papà per 15 giorni. Costretti dalla legge, pena sanzioni, a barcamenarsi per due settimane tra poppate, pannolini, ninne nanne e passeggini. Lo chiede l’Inps: se hai un figlio, per quindici giorni per il primo mese devi stare a casa e fare il papà. Altrimenti multa.
Ha il carattere della provocazione, sulla falsa riga dell’architetto da chiamare “architetta” o stravaganze simili, la proposta lanciata sabato scorso dal presidente dell’Inps Tito Boeri al al convegno “Elle Active”: rendere obbligatori 15 giorni di congedo di paternità nel primo mese dalla nascita di un figlio, con multe per chi non li rispetta. Una proposta che, almeno in linea teorica, ha un fine nobile: quello di bilanciare le responsabilità dei papà e delle mamme nella crescita dei figli già dei primissimi giorni, per non far pesare tutto sull’altra metà del cielo. E che va nella direzione di quanto è stato avviato prima con la legge legge 92/2012, che ha dato la possibilità ai papà lavoratori dipendenti di godere per il triennio 2013-2015 di un giorno da fruire obbligatoriamente più altri due giorni facoltativi in caso di nascita di un figlio, e poi con la legge di stabilità 2016 che ha aumentato a due giorni il congedo obbligatorio, da fruire entro i cinque mesi dalla nascita del figlio.
Ribadiamo: intenzione nobile, metodi per metterla in pratica molto discutibili. Perché se in linea di principio si possono condividere le aspirazioni del numero uno dell’Inps a “spezzare il circolo vizioso che si è creato su un equilibrio sbagliato, che vede l’uomo con maggior potere contrattuale nello stabilire chi deve lavorare e chi deve stare con i figli”, non è normale pensare che una legge da rispettare e multe da pagare possano far risorgere dalle tombe affetti, sentimenti, le anime di uomini calati in questo ruolo da una casuale circostanza biologica che li vede per volontà della natura “padri” ma molto poco “papà”.
L’analfabetismo affettivo fa tanti danni nella vita delle persone e della società. Miete vittime in continuazione. Ma non sarà la pena di una multa o una semplice convenienza economica a risolverlo. Non sarà il potere coercitivo a far fare il papà al papà, la mamma alla mamma, il marito al marito, la moglia alla moglie e così via.
Quel contatto “corpo a corpo” tra padre e figlio, oggi vaneggiato dalla pubblicità che forza la mano per raccontare un inesistente papà alle prese con bimbi in braccio e pannolini, non c’è mai stato. C’è stato un papà, prima e dopo il ’68, che magari non alzava mani ma, come efficacemente descritto dalla lettera di Kafka, giocava a far credere al figlio di “rimanere in vita per sua grazia e di continuare a vivere considerandolo un dono immeritato”. Ecco: giocava a fare finta, come oggi si vorrebbe fare con il congedo di 15 giorni obbligatorio. Oppure il padre della celebre canzone di Cat Stevens che, anche quando intreccia un dialogo con il figlio, non fa altro che ripiegarlo alla banalità del vivere, a trovarsi una ragazza a sistemarsi, con tutto il tempo necessario
Eppure di tempo ne è passato da Kafka e dal padre “padrone”. Si sono fatti passi avanti ma forse non troppi, se è necessario un intervento normativo per suscitare la consapevolezza nei padri della loro missione. Se nessun sentimento si può comprare o imporre, tantomeno saranno bonus e multe a far diventare papà i padri. Finiti i bonus e finiti i quindici giorni che potranno avere anche la durata di una vita, come il figlio della canzone concluderemo: “come posso provare a spiegargli? quando lo faccio lui si gira dall’altra parte…il problema è che non mi conosci”
Salvatore D’Elia