L’immenso campo di ricerca della comunicazione non verbale – oggi ben conosciuta con la sigla “CNV” – ha radici molto antiche. Perfino Platone e Aristotele, a loro modo, si sono occupati dei movimenti del corpo. Benedetto Croce fa notare che “anche in questo campo di studi […] gl’italiani furono precursori”.
Si può leggere di studi sulla gestualità in vari scritti antichi e medievali. Tuttavia, il primo trattato organico sul linguaggio dei gesti risale al 1616 e nasce da penna italiana. Stiamo parlando de L’arte de’ cenni, opera del giurista vicentino Giovanni Bonifacio.
Allo stesso genere – e alla stessa patria – appartiene il lavoro di Andrea De Jorio, che nel 1832 pubblica La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano.
L’arte de’ cenni
Giovanni Bonifacio dedica al linguaggio dei gesti un corposo volume dal titolo a dir poco lungo (occupa quasi un’intera pagina), che ha tutta l’aria di essere un programma: L’arte de’ cenni con la quale formandosi favella visibile, si tratta della muta eloquenza, che non è altro che un facondo silentio. Divisa in due parti. Nella prima si tratta dei cenni, che da noi con le membra del nostro corpo sono fatti, scoprendo la loro significatione, e quella con l’autorità di famosi Autori confirmando. Nella seconda si dimostra come di questa cognitione tutte l’arti liberali, e mecaniche si prevagliano. Materia nuova à tutti gli huomini pertinente, e massimamente à Prencipi, che, per loro dignità, più con cenni, che con parole si fanno intendere.
In quest’opera dall’evidente intenzione politica Bonifacio descrive ogni sorta di gesto (più di seicento), partendo dal significante (l’azione fisica stessa) per arrivare al suo significato:
[…] gesti del capo, della faccia, della zazzera, della barba, della fronte, delle ciglia, delle palpebre, degli occhi, del naso, della bocca, dei denti, e così via, fino all’ombelico, ai genitali, e poi alle vestimenta.
– Benedetto Croce
Nel trattato si sottolinea l’importanza estrema del linguaggio del corpo nella comunicazione.
Non a caso il primo capitolo si intitola Come l’huomo senza parlare con cenni si faccia intendere. Qui le parole dell’autore sono inequivocabili:
[…] anco alcuni animali […] con i loro atti e gesti si può dir che favellino. Il che meglio anco si scorge ne gli huomini mutoli, et in quelli che del nostro idioma non sono intendenti, havendoci la natura dato non meno l’altre membra del corpo, che la lingua stessa per iscoprir le nostre volontà, e palesar i nostri desideri […]. E Quintiliano lasciò scritto che non solo con le mani, ma etiandio co’l cenno dichiariamo la nostra volontà, e poi soggiunge che dal caminare e dal volto si comprende la disposition dell’animo […].
Nel terzo capitolo – intitolato Della dignità di quest’arte de’ cenni – Bonifacio scrive che “questo modo di farsi intendere con gesti e con cenni è veramente per ogni rispetto nobilissimo, e particolarmente per la sua antichità”. I gesti hanno sempre accompagnato e caratterizzato rituali, sacrifici e culti e “moltissimi ne habbiamo nella nostra christiana religione”. Qui si legge anche che “i grandi e saggi Prencipi sogliono più i cenni, che le parole usare”.
La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano
Un altro classico del genere risale al 1832, anno in cui l’archeologo e canonico napoletano Andrea De Jorio pubblica un trattato rivolto a una indagine sulla gestualità dei napoletani. Esso si intitola La mimica degli antichi investigata nel gestire napoletano.
L’opera dispone la sua materia in forma di vocabolario ed è munita di rappresentazioni grafiche (presenta in allegato ventuno tavole disegnate dal pittore Gaetano Gigante). Dal titolo è possibile intuire facilmente l’argomento del lavoro come pure gli intenti, che peraltro l’autore dichiara espressamente nell’introduzione del trattato:
[…] illustrare la sempre e comunemente decantata mimica de’ Napoletani, non che la sua perfetta rassomiglianza all’antica. […] la idea principale della nostra intrapresa è l’offrire al pubblico un saggio della mimica de’ Napoletani, e del suo concatenamento con quella degli antichi.
Il De Jorio fa degli interessanti riscontri tra certi gesti napoletani e quelli di lontani e differenti popoli, “nuova prova della comunanza del sentire e dell’immaginare umano pur tra le differenze storiche”. Si avvale di riscontri avuti da forestieri in cui gli è capitato di imbattersi, come nel caso che segue:
Pollice ed indice i di cui estremi sollecitamente si stropicciano l’un l’altro. Con questo segno non si fa altro se non il contraffare l’atto di numerar monete, e quindi dinota il danaro. Questo è il più usitato atteggiamento che lo indica tanto presso la nostra che le altre nazioni. Basta dire che nel Canadà con questo identico gesto si dinota la moneta. Avendo chiesto a due rispettabilissimi Missionarii, M.r Mason et Thomas Maguire di Quebak, se presso di essi eravi anche un gesto esprimente il danaro, tosto lo eseguirono nel modo come se fossero tanti nostri compaesani, aggiungendo che lo stesso si usa dai Selvaggi del Canadà.
Corna, jettatura e amplificazione
Trattandosi di un’opera che parla del “gestire napoletano”, non ci si stupisce del fatto che sia presente una lunga trattazione rivolta al gesto del “far le corna” e agli scongiuri napoletani contro la “jettatura”. Il De Jorio analizza ben dieci “specie di corna” di cui “fanno uso i napoletani”. Successivamente spiega le “idee che i napoletani attaccano alle corna di qualunque natura esse siano”, di cui la prima riportata è, come facilmente possiamo indovinare, l’infedeltà coniugale. Un’altra caratteristica tipica del “gestire napoletano” è quella che l’autore chiama “amplificazione”, strumento comunicativo di cui si può fare uso sia nel linguaggio sia nel gesto.
I Napoletani da profondi retorici ingrandiscono il nome col denominarlo in tante e sì diverse guise che, mentre ne additano le qualità, i rapporti, le somiglianze differentissime, l’amplificano al più non potere nell’idea dell’uditore. […] Lo stesso si esegue col gestire. Ove si tratti specialmente di esprimere le passioni, il Napoletano non si contenta mai. Eseguisce un gesto con tutte le sue appendici, […] lo ingrandisce in varii saporitissimi modi […] per darvi maggior forza, il ripete; […] tal che produce una certa estasi nello spettatore, il quale resta sorpreso di siffatta moltitudine e vivacità di gesti che […] rimane non solo persuaso, ma immedesimato nel sentimento del mimico. […] ogni parte del corpo concorre all’azione […] Bisogna vedere il popolo Napoletano in occorrenza di feste pubbliche, nelle quali il suo cuore veramente prende parte […] in occasione della perdita di qualche congiunto, in qualche rissa donnesca, […] o nell’impegno di persuadere altrui […].
Noi italiani siamo veri maestri del linguaggio dei gesti, abilissimi nella pratica quanto consapevoli nella teoria. Giovanni Bonifacio e Andrea De Jorio hanno contribuito a costruire le basi per un successivo riconoscimento della dignità scientifica della comunicazione non verbale.
Annapaola Ursini
Articolo veramente interessate. Mi viene da pensare che questa nostra peculiarità possa derivare dalle prime forme rudimentali degli esseri umani preistorici, di come in qualche modo dovevano comunicare prima dello sviluppo del linguaggio e quindi sia rimasto un tratto permanente.
Ciao Anna, mi fa davvero piacere che tu abbia trovato interessante questo articolo. Per risponderti, sì, la nostra gestualità affonda certamente le sue radici in un passato primitivo. Le forme di comunicazione non verbale che adoperiamo oggi sono il frutto di una commistione tra “natura” e “convenzione”. Portiamo sempre con noi qualcosa di istintivo e ancestrale, ereditato dal passato, e a questo aggiungiamo qualcosa di nuovo.