L’incipit letterario possiede un fascino unico. Tradurre in atto ciò che esiste in potenza, trarre il particolare dalla molteplicità del possibile è ciò che esige dallo scrittore la pagina bianca, che attende d’essere ‘informata’, ovvero ricevere una forma che la faccia vivere, la renda unica, la individualizzi.
L’incipit letterario
Nelle Lezioni americane di Calvino, l’ultimo capitolo, che figura come appendice visto che l’autore lo rielaborò continuamente senza mai raggiungere una stesura definitiva, è intitolato Cominciare e finire. Il capitolo avrebbe dovuto essere introduttivo al libro che include le sei conferenze tenute all’Università di Harvard nel 1985, ma Calvino, come si accennava, vi lavorò a lungo, rimaneggiandolo, senza pubblicarlo mai. Indice questo di una difficoltà evidente, legata proprio alla natura di ogni incipit letterario, che impone una scelta, un distacco, un’individuazione: letteraria e linguistica, certo, ma anche personale e culturale.
Cominciare una conferenza, anzi un ciclo di conferenze, è un momento cruciale, come cominciare a scrivere un romanzo. E questo è il momento della scelta: ci è offerta la possibilità di dire tutto, in tutti i modi possibili; e dobbiamo arrivare a dire una cosa, in un modo particolare. Il punto di partenza delle mie conferenze sarà dunque questo momento decisivo per lo scrittore: il distacco dalla potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste ma che potrà esistere solo accettando dei limiti e delle regole.
Fino al momento precedente a quello in cui cominciamo a scrivere, abbiamo a nostra disposizione il mondo, una somma di informazioni, di esperienze, di valori – il mondo dato in blocco, senza un prima né un poi, il mondo come memoria individuale e come potenzialità implicita; e noi vogliamo estrarre da questo mondo un discorso, un racconto, un sentimento: o forse più esattamente vogliamo compiere un’operazione che ci permetta di situarci in questo mondo. […]
Ogni volta l’inizio è questo momento di distacco dalla molteplicità dei possibili: per il narratore l’allontanare da sé la molteplicità delle storie possibili, in modo da isolare e raccontare la singola storia che ha deciso di raccontare questa sera; per il poeta l’allontanare da sé un sentimento del mondo indifferenziato per isolare e connettere un accordo di parole in coincidenza con una sensazione o un pensiero.
Conversazione in Sicilia
Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto.
Così il celebre attacco di Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini. Uscito a puntate sulla rivista Letteratura nel 1938-1939, in pieno Fascismo, alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, esce in volume col titolo di Nome e lagrime prima e come Conversazione in Sicilia nel 1941. La storia di Silvestro è quella di un ritorno alle radici, di una discesa agli inferi, di un cammino di redenzione e rinascita. La madre Concezione accompagna il protagonista nei luoghi dimenticati di una Sicilia da cui ripartire per ritrovare impulso e vita. L’incipit è emblema di una condizione umana di assoluta impotenza di fronte ai mali della dittatura fascista, della guerra di Spagna e della seconda guerra mondiale. La condizione di Silvestro diviene metafora della necessità di andare a ritroso per poter ricominciare, per ritrovare il furore non nell’astrazione, ma nel sangue che ci scorre nelle vene.
Rosso Malpelo
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone.
Questo il famoso incipit di Rosso Malpelo, novella verghiana inclusa in Vita dei campi (1879-1880). La voce del narratore assume il punto di vista della gente, ne assume il pregiudizio. Malpelo, già dal nome, porta in sé un marchio distintivo, una connotazione negativa. Rosso come la rena della cava in cui lavora, il giovanissimo minatore è in realtà una vittima di una società ingiusta, in cui non solo i latifondisti, attraverso la mafia dei campi, sfruttavano il lavoro dei contadini, ma i bambini erano impiegati nelle zolfare.
Todo modo
«A somiglianza di una celebre definizione che fa dell’universo kantiano una catena di casualità sospesa a un atto di libertà, si potrebbe» – dice il maggior critico italiano dei nostri anni – «riassumere l’universo pirandelliano come un diuturno servaggio in un mondo senza musica, sospeso ad una infinita possibilità musicale: all’intatta e appagata musica dell’uomo solo».
Uno degli incipit più affascinanti della storia della letteratura, questo di Sciascia. Autore, purtroppo, incompreso. Libero come pochi. Romanziere, critico, filosofo, illuminista, politico, poeta, giornalista, Sciascia usava la penna come una spada per combattere mafia, ingiustizia, malaffare. Todo modo è uno dei romanzi rivelatori della nostra epoca: rivela la corruzione dell’oligarchia al potere. Non è un giallo, Sciascia non ne scrisse, utilizzò il genere per farne una metafora della società italiana. Il giallo rovesciato, in cui non si individua mai il colpevole, è lo specchio della corruzione e dei crimini impuniti. Il potere non può indagare su sé stesso, sembra dire Sciascia. Sciascia amava Pirandello, ne scrisse a lungo. Il critico cui fa riferimento nell’incipit invece è Giacomo De Benedetti. Bisogna addentrarsi nella lettura di Todo modo per riuscire a cogliere la potenza della musica dell’uomo solo. Bisogna leggere, come una metafora, questa terra meravigliosa e dannata che è la Sicilia.