Se la scienza è prodotto della capacità umana di osservare la natura e gli esseri vivienti, i limiti e difetti degli esseri umani sono anche i limiti della scienza stessa.
Nel suo Elogio della scienza, il fisico Sander Bais descrive la scienza come “ciò che definisce con la migliore approssimazione possibile cosa significhi essere umani”. Seppur con strumenti diversi, infatti, anche la scienza, come la filosofia, si interroga da millenni sulla natura umana. Frutto dell’osservazione umana del mondo, che cos’è la scienza se non l’uomo che studia se stesso e il proprio essere umano? Nel suo essere inscindibilmente legata alla natura umana di cui è espressione, la scienza si fa però carico delle limitazioni intrinseche proprie della condizione umana. I limiti della scienza non sono quindi altro che i nostri limiti e, allo stesso tempo, tutti i nostri limiti si riversano inevitabilmente sulla scienza.
Che cosa significa dunque essere umani? Impossibile rispondere in modo esaustivo e univoco, forse proprio a causa dei nostri limiti antropologici. Anzi, proprio il nostro essere limitati potrebbe essere la nostra cifra distintiva, quell’elemento che ci rende tutti umani. Secondo il filosofo tedesco Martin Heidegger infatti la nostra “finitezza” non è solo una caratteristica di noi uomini, bensì “il modo fondamentale del nostro essere”. Viene quasi spontaneo quindi domandarsi se delle creature così finite e limitate siano effettivamente in grado di raggiungere una qualche forma di reale conoscenza. È infatti sempre stato proprio questo il principale interrogativo che la filosofia della scienza si è posta. Possiamo davvero conoscere la realtà che ci circonda? E se sì, in che modo e in quale misura?
Il dibattito gnoseologico
Poiché i nostri limiti coinvolgono ogni aspetto della nostra essenza, essi interessano necessariamente anche la nostra facoltà conoscitiva (in greco, gnosis/γνῶσις, da cui gnoseologia). La capacità umana di conoscere e fare esperienza del mondo è stata da sempre oggetto di dibattito filosofico. Basti pensare al Mito della caverna di Platone, secondo cui il mondo di cui facciamo esperienza sarebbe solo una proiezione della realtà raffigurata appunto sulla parete della caverna entro cui saremmo tenuti prigionieri.
Particolarmente rilevanti sono poi le teorie avanzate sull’argomento a partire dal diciassettesimo secolo. Con la famosa frase “cogito, ergo sum”, René Descartes (meglio noto come Cartesio) sosteneva che se “posso pensare, allora esisto”. Il fatto stesso di esistere quindi sarebbe ciò che, a priori, ci garantisce di poter conoscere il mondo che ci circonda. Di avviso diametralmente opposto, invece, il britannico David Hume affermava che gli uomini non sono che “fasci o collezioni di differenti percezioni”. Secondo questa visione, l’uomo non esiste in se stesso e può solo conoscere il mondo, e se stesso, a posteriori, ossia dopo averne fatto esperienza. Inconciliabili tra loro, il Razionalismo cartesiano e il radicale Empirismo di Hume trovano la propria sintesi solo nella cosiddetta “Rivoluzione copernicana” operata da Immanuel Kant.
Nel Criticismo kantiamo assistiamo all’introduzione dei concetti di noumeno (essenza della realtà) e fenomeno (ciò che appare) e alla limitazione della facoltà cognitiva umana al solo fenomeno. Il noumeno invece rimane pensabile, ma non conoscibile. Partendo da questa concezione, nel secolo scorso, Karl Popper fece un notevole passo avanti affermando che quando si tratta di conoscenza, siamo in realtà “sempre nel regno delle ipotesi”. Secondo il Neopositivismo, infatti, in quanto esseri umani limitati, possiamo solo ambire alla verità – e magari anche raggiungerla! – ma non potremo mai sapere se il risultato ottenuto è davvero la verità.
Limiti epistemologici
L’impossibilità di stabilire la veridicità dei risultati raggiunti si riflette quindi sulla qualità della conoscenza scientifica (in greco, episteme/ἐπιστήμη) a cui possiamo ambire. Popper sosteneva infatti che qualsiasi forma di conoscenza l’uomo possa acquisire sarà sempre di natura provvisoria, congetturale, falsificabile e ipotetica. Per ogni esperimento, criterio essenziale è la riproducibilità dello stesso. Eppure spesso si riscontra un’eccessiva co-dipendenza tra le condizioni in cui si è condotto un esperimento e i risultati ottenuti (“regresso dello sperimentatore”). Il che dà ovviamente luogo a interpretazioni quantomeno ambigue.
Se già sembra impossibile per l’uomo ottenere risultati oggettivi che siano sempre validi, non possiamo certo aspettarci esiti migliori dalle macchine. Allo stato attuale delle cose, infatti, gli algoritmi non sono in grado di sostituire alcuna attività umana che non possa essere scomposta in singole operazioni semplici. Inoltre, nessun algoritmo può produrre nuova conoscenza, né decidere autonomamente della propria validità.
Infine, la conoscenza scientifica è indubbiamente vincolata alla tecnologia disponibile a scienziati e ricercatori in una specifica epoca. Quello che solo qualche decennio fa era fantascienza, ora esiste veramente. Così come molto di quello che oggi ci viene presentato come fantascienza potrebbe prima o poi realizzarsi. La fantascienza ha spesso colmato il divario tra la scienza e quella che in alcuni periodi storici non era altro che “magia”. Il fatto però che sia spesso riuscita ad anticipare innovazioni future ci dimostra che la mente umana è sempre avanti di qualche passo nella propria evoluzione. Deve solo aspettare che i tempi siano maturi – e che gli strumenti siano pronti – per la realizzazione di ciò che ha immaginato.
La curiositas umana
Nonostante i propri limiti, anzi spesso a dispetto dei propri difetti, da quando è comparso sulla Terra, l’uomo ha avviato un processo ininterrotto volto al progresso. Questo non può che far intuire l’esistenza di una forza motrice interna alla nostra natura in grado di compensare tutti quei limiti.
Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza.
Il celebre monito dell’Ulisse dantesco ci ricorda quale sia la nostra vera natura. E ogni espressione di questa natura, dalla scoperta del fuoco ai capolavori della fantascienza, mostra quanto l’uomo sia sempre e da sempre mosso dalla propria insaziabile e inesauribile sete di conoscenza. Da quel valore interiore che i Romani chiamavano curiositas.
In quanto dotati di intelligenza, abbiamo il diritto e, in un certo senso, anche l’obbligo morale di mettere a frutto la nostra intelligenza, a beneficio nostro e, idealmente, dell’intera umanità. E quando l’idea dietro alla ricerca (pensiero), il linguaggio per esprimerla e la tecnologia sono pronti, il progresso può avvenire. Sembra quindi paradossale, una volta in possesso dei mezzi per riuscirsi, pensare di arrestare il progresso ponendo dei limiti etici alla scienza. Eppure, proprio a causa della nostra intrinseca finitezza, esistono circostanze in cui rinunciare a portare avanti una ricerca potrebbe, in prospettiva, portare all’umanità benefici notevolmente maggiori.
Cristina Resmini