Molto spesso la follia non è una condizione in cui tuffarsi ma l’ascendente sotto cui nasciamo o la via dove il mondo ci spinge.
L’Italia, che di solito si fa conoscere nel mondo poetico internazionale per il neoclassicismo e le tensioni vitali di un Foscolo o la complessità di transizione di Leopardi, tralasciando Dante che ha altri criteri per essere studiato, conosce nella sua storia letteraria grandi poeti sull’orlo dell’oblio mentale e psichico.
La follia ha segnato la vita di Saba e di Alda Merini ma ha avuto modi diversi per parlare alle loro esistenze. Il verso sabiano si staglia per una costruzione mobile, da cogliere nell’istante come l’acqua di un ruscello. Le sue immagini accarezzano ed attraversano, per colpire nella semplicità che fugge. Quello della Merini invece lavorava per aggregato di sensazioni, è quasi totalmente olfattiva proprio per la sua resa aerea delle atmosfere e delle esperienze vissute. La sua parola vive come componente di un pensiero denso ma ristoratore.
Ma le menti dei poeti citati finora funzionavano diversamente da quella febbrile di Dino Campana (1885-1932) o quella, espressasi su tela, di Antonio Ligabue (1899-1965).
Le somiglianze tra le loro vite non si limitano all’instabilità mentale, nel primo caso indotta dall’esterno, nel secondo quale condizione autonoma e spontanea.
Nelle loro opere si potrebbe riassumere che il principio fondamentale sia l’immagine, come cristallizzazione delle tensioni interne dell’immaginazione. Contini arriva a definire così l’autore dei Canti Orfici: non un veggente o un visionario: è un visivo, che è quasi la cosa opposta. Il poeta non cerca di trascendere ma di immischiarsi nell’immagine che gli si crea davanti.
Supera i futuristi nel suo linguaggio libero e musicale, fatto di accelerazioni, slow motions e stacchi più cinematografici di quanto si pensi:
Io vidi dal ponte della nave
I colli di Spagna
Svanire, nel verde
Dentro il crepuscolo d’oro la bruna terra celando
Come una melodia:
D’ignota scena fanciulla sola
Come una melodia
Blu, su la riva dei colli ancora tremare una viola…
Illanguidiva la sera celeste sul mare:
Pure i dorati silenzii ad ora ad ora dell’ale
Varcaron lentamente in un azzurreggiare:…
Lontani tinti dei varii colori
Dai più lontani silenzi!
Molti parlano, come per Pasolini, di un’ispirazione pittorica o una tensione verso il maledettismo francese: semmai, noi abbiamo un esempio di fotografia in movimento, un campo lunghissimo della mente che si dilata di fotogramma e fotogramma. Campana è grande appunto perché cristallizza la sua forza come un Daguerre che cattura le immagini della notte.
La sua discesa nella follia è notturna ed investigativa almeno quanto Ligabue è solare, ossessivo, dominante. I toni di Ligabue trascendono gli stilemi della pittura naif per la sua esplorazione violenta e libera della sopraffazione, della violenza che da stato mentale diventa dimensione cosmica.
I colori vivi, accesi, la vitalità distruttiva delle sue belve accompagna e suggerisce le immagini della morte. I teschi stanno sotto le figure ed il verde rigoglioso; le tigri e i rapaci sono entità con cui creare una simbiosi con il rito, lo sforzo corporeo, cerchi a terra, danze, un gioco di potenza da fare con sé stesso, tra l’Io instabile, irascibile eppur timido e l’Es vorace pronto a distruggere gli altri e la sua stessa esistenza.
Un personaggio quindi più vicino a Van Gogh che ai naif, sotto l’insegna di una personalità che si erge a padrona del mondo in un delirio infantile e al contempo complesso, rituale e maturo.
Come se l’uno fosse lo specchio dell’altro, noi possediamo due versioni della follia e delle sue ombre così feconde e generose nel contatto con la mente umana. Di certo meriterebbero molta più attenzione di quella che tuttora possiedono.
Antonio Canzoniere