Io non cerco un lieto fine, perchè…
Quando la portiera dell’auto grigia si chiude voglio poter pensare di essere ancora io; in una veste diversa, cambio di outfit, acconciatura anni 80, ma comunque io. Nell’anima.
Non ho sbagliato posto, questa è la mia storia, le mie parole, le mie virgole.
La mia malattia è reale, la sento divorare le mie viscere e rosicchiare le mie deboli ossa.
Ora dopo ora, minuto dopo minuto, attimo dopo attimo.
Siamo tutti malati di qualcosa. E la nostra malattia sarà qual nostro male finale; quello che, arrivando su un cavallo bianco, divorerà le nostre inutili carni.
Non cerco un lieto fine in questa folle corsa contro il tempo.
Il lieto fine me lo sono mangiato anni fa, senza neanche masticarlo, né sentirne il sapore.
Le cose sono sempre di più, enormi, gigantesche, voraci, di quel che ti puoi immaginare.
Non voglio un lieto fine. Voglio una speranza. La speranza è qualcosa di diverso, è una strana fiamma che ti brucia dentro ogni contraddizione.
In questo mondo, soffocato dai media e dalla bulimia d’informazioni, che vengono maciullate ogni giorno, vomitate e mai realmente ascoltate, si parla troppo. In questo mondo si parla troppo. Dare costantemente fiato alla bocca stanca.
Osservare, sperare, pregare, vedere e commuoversi, muove l’uomo all’azione.
Esistono persone che non interessano a nessuno, in questo universo malato. Esseri viventi che si lasciano fagocitare da malattie che esistono ma non si vedono, sprofondano lentamente, e si abbandonano alla morte.
Perchè questo dannato mondo non si ferma mai, neanche un secondo?
Perchè non realizziamo che l’esistenza stessa ha un valore?
Il lieto fine me lo sono mangiato anni fa, senza neanche masticarlo, né sentirne il sapore.
Non voglio un lieto fine; sono alla continua ricerca di una speranza, una flebile fiamma che mi bruci dentro ogni contraddizione.
Ce lo chiediamo mai da quale angolazione stiamo osservando la vita?
Perchè ogni volta che si parla di Aids si devono necessariamente ascoltare laiche prediche relative alla pancea dei preservativi, magari anche da lanciare dal cielo su ogni continente? Cosa me ne faccio di un preservativo se già sono sieropositiva?
Non esiste più un linguaggio, un’etica giornalistica, la passione per il proprio lavoro, l’amore verso il prossimo. Manca la morale, manca l‘amore, manca la vita. Non c’è più traccia di umanità in nessun luogo, neanche nelle mie mutandine di pizzo. Il nostro corpo inizia a morire nell’istante esatto in cui nasciamo, si. Ma la nostra anima dovrebbe nutrirsi di vita.
Scendo lentamente i gradini di quel treno che mi ha condotto a destinazione. Osservo molta attenzione al luogo dove i miei pedi incontrano il terreno. Ho smesso di rifiutare le medicine, e spesso vedo il mondo un po’ offuscato, sbiadito, lontano, come dietro ad una spessa lastra di vetro. A me piace molto quella sensazione, mi ricorda quando lavoro su Photoshop, e metto a fuoco solo ciò che m’interessa. Finchè tutto non diventa buio. La mia malattia non si vede. Ma annienta fegato, cuore e ossa.
“E’ vietato oltrepassare la linea gialla in attesa dei treni”.
Mi accerto di essere sul marciapiede del binario corretto, stretta nei miei pantaloni nuovi e le mie scarpette dal tacco 12. E si, anche le malate hanno il diritto d’indossare i tacchi. Respiro a pieni polmoni l’aria della mia città, lo smog, l’olezzo di kebab e l’alito stantio della signora accanto a me, che ansima trascinando una valigia gigantesca. Amo sentirmi a casa, e affascinarmi ogni giorno dei luoghi che per puro caso sfioro, tocco; con lo sguardo, con l’olfatto, con l’udito e con il gusto. Vengo investita da una folla di persone malate, che corrono contro il tempo, ossessionate da una fretta illusoria, dalla paura di poter mancare a quell’appuntamento, che li farà sentire ancora più soli. E malati. Sono malati anche loro, ma ancora non lo sanno.
Non cerco un lieto fine. Perchè non ho ancora trovato qualcuno che non abbia paura di tutto questo schifo, e che lo sappia affrontare insieme a me.
Non cerco un lieto fine nelle mie storie, nelle narrazioni, nei film.
“Non posso fare a meno di pensare che gli scrittori, possano, di tanto in tanto, trarre profitto dagli insegnamenti dei cinesi. Questi costruiscono case in pendenza, ma hanno sufficiente buon senso da iniziare i loro libri dalla fine”.
Leggo questa frase di Edgar Allan Poe ogni volta che la vita mi sorprende, e mi induce a pensare “cosa mi aspetto adesso?”.
A me la vita deve lasciare un graffio, deve massacrarmi, ferirmi per poi curarmi, amarmi e poi odiarmi.
Sono io l’artefice del mio destino. Sono nata pazza, malata, prematura, incostante, contraddittoria e con le mani piccole. Ma voglio che mi tremino le gambe durante il mio folle percorso. E voglio essere maledettamente soddisfatta.
Quando la portiera dell’auto grigia si chiude voglio poter pensare di essere ancora io. Dentro di me, nella mia anima.
Accanto a me un ragazzo fissa il vuoto, con le cuffiette alle orecchie. Da piccolo respirava benzina e ancora fa fatica ad allacciarsi le scarpe. Davanti a noi una ragazza si guarda costantemente le spalle; da bambina è stata abbandonata in un cassonetto, e ha ancora il terrore degli spazi bui e chiusi.
Alla morte non ci si abitua mai, ma alla malattia, qualche rara volta, si.
La malattia è quello strappo che squarcia la tela interna di ognuno di noi. Ci accarezza, ci asciuga le lacrime, ci consola se siamo tristi. E ci uccide, giorno dopo giorno.
Viviamo in un mondo malato, dove le persone si sono trasformate in automi della consistenza di un foglio di carta velina. Parliamo troppo, conosciamo troppo poco.
Avete ancora il coraggio di dirmi che non siamo malati?
Io non voglio un lieto fine, perchè ancora devo trovare qualcuno che non abbia paura di vedere lo schifo che ci vive attorno, e lo sappia affrontare, tenendomi per mano.
Non cerco un lieto fine, perchè nella mia realtà esistono ancora le guerre, bombe, le gole tagliate, i bambini malnutriti e abbandonati sul ciglio della strada.
Non cerco un lieto fine da nessuna parte perchè ho bisogno della vita vera, cruda, scottante; non di una pubblicità della “Mulino Bianco”.
Voglio essere malmenata, distrutta, rovinata, violentata, ma viva. E terribilmente soddisfatta.
Chiedo scusa alla mia malattia. Chiedo scusa se non sono stata abbastanza forte.
Le chiedo di baciare le mie fragilità, le mie debolezze, le mie incoerenze, i miei tradimenti, il palmo della mia mano troppo piccola.
Le chiedo scusa perchè ho scelto la vita, anche se non mi aspetto più un “vissero tutti felici e contenti”.
Non cerco un lieto fine ma una speranza, che arda nelle mie iridi color miele, e che bruci dentro di me ogni contraddizione.
Elisa Bellino