Cent’anni di memoria è l’ultimo libro di Mario Trudu che ha segnato profondamente l’esperienza di Francesca de Carolis nel seguirne la stesura.
Di Francesca de Carolis
Ho incontrato Mario Trudu, curandone il lavoro, mentre si trovava nel carcere di san Gimignano. Attualmente si trova in Sardegna, ad Oristano.
Alcune riflessioni che accompagnano il libro.
Quando si incontra qualcuno in carcere, difficile che poi la tua vita scorra come prima. Quando poi quel qualcuno ha trascorso quasi tutta la sua, di vita, dentro quattro mura, e in regime di Alta Sicurezza, e per di più con una pena che non finirà mai… quando conosci di cosa è fatto il cammino del suo tempo, e chi non è entrato in un carcere non può immaginare, allora è davvero difficile, anche solo per poco, scrollarsene di dosso il pensiero. Così, ho continuato a seguire la vita prigioniera di Mario Trudu, mese dopo mese, prendendo ogni volta che è stato possibile la via che porta al carcere di San Gimignano. Ogni volta ritornando verso casa carica dei suoi appunti, delle sue lettere, dei suoi racconti. Di straordinaria forza. Come mi è subito sembrato anche questo lungo racconto che tempo fa mi aveva consegnato, un po’ arrossendo e un po’ schermendosi, come sempre fa lui: “Leggi questo, se hai tempo da perdere…”.
Manoscritto dal paese del sole, l’aveva intitolato. Perché il ricordo di Arzana, il paese in provincia di Nuoro nel quale è nato, e della sua gente, davvero è stato per Mario Trudu il sole che ha scaldato una vita che il nostro sistema giudiziario vuole definitivamente morta. Con buona pace del tanto sbandierato principio della Costituzione che vorrebbe le pene tendere alla rieducazione, eccetera eccetera…
Scorrendo le pagine dei ricordi d’infanzia e della prima gioventù, si ritrovano le radici di quel mondo il cui pensiero gli ha permesso di sopravvivere ai lunghissimi anni in carcere. Si comprende quanto violento ne sia il ricordo da percepirne ancora oggi persino gli odori, i sapori, il suono delle parole… Pagine dai colori forti, che rimandano alle immagini che hanno fatto da sfondo, ora acceso ora più sfumato, al suo primo libro, “Tutta la verità, storia di un sequestro”, che ha inaugurato il nuovo progetto editoriale voluto per Stampa Alternativa da Marcello Baraghini.
Mario Trudu, per chi non lo sappia, è in carcere dal 1978. Due condanne per sequestro di persona, della prima da sempre si dichiara innocente. Della seconda si è sempre assunto tutta la responsabilità, ma pure tiene a far sapere che il reato che ha compito è stata reazione ( ora mi dice sa quanto sbagliata) alla prima grande ingiustizia subita. L’applicazione retroattiva delle norme emergenziali degli anni ‘90, diventate, come tutto in Italia, da temporanee definitive, lo hanno seppellito vivo. E nulla importa quello che nel frattempo è diventato, se pentimento vero è maturato nel suo animo. Per la giustizia Mario Trudu è una persona che non ha scelto di essere collaboratore di giustizia. E questo basta. Dopo 37 anni di carcerazione per il nostro sistema giudiziario Mario Trudu, che in carcere è entrato giovane, ha trascorso la maturità, e ora sempre lì si avvia alla vecchiaia, è ancora l’uomo del sequestro di oltre sette lustri fa. C’è qualcosa, mi chiedo sempre più spesso, che non va…
Me lo chiedo ogni volta che lo vedo arrivare nella stanza dove avvengono i nostri incontri: un educato signore, che sulla soglia arrossisce, timido sembra all’inizio, introverso piuttosto penso ora, che ci tiene moltissimo ogni volta ad avere qualcosa da offrirmi, e ogni volta si scusa di quel poco ( poco secondo lui, per me sempre troppo) che il regolamento del carcere permette. Ogni volta mi interrogo sulla sua lunghissima vita fatta di sottrazioni… perché in carcere per sottrazione si vive. Difficile persino fargli avere delle matite per i suoi disegni. Sembra una banalità, ma non potete immaginare quante banalità rendono ancora più afflittiva la vita di chi è in prigione.
Eppure, a volte penso, basterebbe poco… Non potete immaginare quanta gioia ha espresso in una sua lettera, raccontandomi dell’albero che riusciva a vedere dalla sua nuova cella quando è stato trasferito a San Gimignano.
Difficile trovare le parole per spiegare a chi non ne ha esperienza il carcere e, a chi non ha mai guardato negli occhi un ergastolano, il carcere a vita. Difficile trasmettere il senso di chiusura al mondo. Ma forse una chiave Mario, involontariamente me l’ha data. Mi perdonerà se svelo un brano dei nostri colloqui. Ma ascoltate…
Lo scorso anno, l’ho incontrato un giorno che si era vicini all’otto marzo. E Mario mi ha portato il disegno di una rosa. “Avrei voluto- mi ha detto un po’ imbarazzato- regalarti una mimosa. Ma… non riesco a ricordare… aiutami… com’è fatta una mimosa?”. Gialla, quei pallini tutti gialli… ho risposto a mezza voce, pensando al buco nero del tempo che ha ingoiato il colore delle mimose, e all’oscenità della chiusura definitiva al mondo di “quelli della morte viva”.
Dai nostri colloqui esco spesso piuttosto triste. Perché, vi assicuro, è straziante lasciare una persona in carcere quando hai capito veramente dove la lasci. Anche se Mario mi congeda sempre con saluti sorridenti. Ma so bene che c’è una sola cosa che illumina davvero la sua anima. Ed è il ricordo della sua terra e della sua casa. Si capisce bene leggendo queste pagine, guardando i bellissimi disegni di cui il racconto è tessuto, e gli spazi onirici che sanno dischiudere.