Bavaglio turco: il rimedio dello Stato alla libertà di stampa e di opinione

libertà di stampa in Turchia

La Turchia annaspa da decenni nel mare di una crisi democratica.

Quando uno Stato limita la libertà di stampa e di opinione,  reprime la libertà di associazione, logora la partecipazione popolare al potere politico e controlla il sistema giudiziario, non può definirsi in altro modo se non illiberale.

Uno dei postulati su cui si fonda il sistema penale turco è il principio di colpevolezza. Ovviamente, questo non significa che tutti vengono considerati colpevoli fino a prova contraria. Piuttosto, questo principio di rango costituzionale, sancisce che la pena può essere inflitta solo e soltanto nei limiti della colpevolezza (nulla poena sine culpa).

Ora, se prendiamo per un momento in prestito le parole del Presidente Mattarella, “la libertà di stampa è il termometro della salute democratica di un Paese”, possiamo arrivare alla conclusione che in Turchia vige uno stato febbrile diffuso. Quasi peggiore del Coronavirus.

Il delitto di opinione e di stampa

Uno dei sintomi più devastanti, tale da mettere in ginocchio un Paese, è l’art. 301 del c.p.: il delitto di opinione e di stampa. Largamente applicato, è lo strumento costruito ad hoc per reprimere la libertà di espressione (e in particolare gli oppositori).
L’atto richiesto affinché trovi applicazione è la diffamazione pubblica dello Stato e dei simboli della sovranità.

I termini usati all’interno della norma sono di una vaghezza e di una ambiguità tale da permettere di addossarla a chiunque. È vietato disapprovare (a mezzo stampa o in riunione, intendendosi un gruppo composto da due o più persone) lo Stato, il Governo, i corpi giudiziari (che sono insindacabili), gli organi legislativi, le organizzazioni militari e di sicurezza dello Stato.

E qui arriva il bello, il comma 3 dello stesso articolo. Quello che dovrebbe essere filoccidentale. Esso specifica che “le espressioni di pensiero a scopo di critica non costituiscono reato” precludendo la punibilità. Ma chi stabilisce la linea di demarcazione tra critica e denigrazione? Indovinate un po’? La risposta è scontata, gli stessi organi oggetto della norma.

L’ingiusto processo

A completare il quadretto di uno Stato di diritto apparente, ci sono i processi. Sommari, ovviamente. La parità tra accusa e difesa è un miraggio. Lo sa bene Selçuk Kozagacli, l’avvocato che si è battuto per l’indipendenza della magistratura, per il riconoscimento dei diritti civili e politici, per l’applicazione delle convenzioni internazionali sui diritti fondamentali.

Lo sa bene, perché l’hanno sbattuto in carcere, a Sliviri, dove sta scontando una condanna di 11 anni e 3 mesi. Il suo processo è stato un caso mediatico poiché prima sono state vietate le arringhe finali agli avvocati difensori, poi la Corte di Istanbul ha rigettato l’appello a porte chiuse, cioè senza dibattimento pubblico.

In questo clima di tensioni, peggiorato a seguito del colpo di Stato del 2016, è facile capire perché i mezzi stampa indipendenti sono letteralmente spariti di scena lasciando il loro posto a quelli filogovernativi. A rimetterci è, come sempre, il livello di consapevolezza e conoscenza dell’opinione pubblica, dimostrato dagli esiti del Referendum costituzionale del 2017.

Anche in quel caso, la prassi avrebbe voluto che gli organi competenti conferissero ai media la responsabilità di fornire delle informazioni oggettive, non propagandistiche.

Conclusioni

Questa è solo la punta di un iceberg ben più grande e profondo. Lo Stato di emergenza istituito da Erdoğan dopo il golpe, durato complessivamente due anni, ancora porta con sé gli strascichi delle ripetute violazioni della libertà di stampa e di espressione.

Gli arresti arbitrari dei giornalisti, la chiusura dei centri di informazione ritenuti pericolosi per la sicurezza nazionale, gli abusi di potere da parte dell’esercito, hanno confinato buona parte degli oppositori alla reticenza.

L’erosione incessante di quel che rimane dello stato di diritto in Turchia è sotto gli occhi di tutti e lo sguardo degli organismi internazionali sembra ormai rassegnato.

 

Arianna Folgarelli

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