A cura di Donia Raafat
Con sette ore di ritardo, i primi 90 ostaggi palestinesi hanno finalmente riabbracciato i loro cari. Le loro testimonianze rivelano un calvario di violenze, umiliazioni e torture subite nelle carceri israeliane, trasformate in veri e propri campi di detenzione. Le storie di Khalida Jarrar, deputata palestinese detenuta in isolamento, e di giovani come Shatha Jarabaa, arrestata per un post sui social media, ci riportano alla cruda realtà di un conflitto che continua a mietere vittime innocenti.
Nella notte tra domenica 19 e lunedì 20 gennaio, alle ore 00:00 ora italiana, sono stati rilasciati i primi 90 ostaggi palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Tra loro, 69 donne e 21 minori rilasciati in Cisgiordania e da Gerusalemme Est.
Tra i liberati spicca Khalida Jarrar, deputata del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, nota per il suo impegno a favore dei diritti umani e per la difesa dei prigionieri palestinesi. Arrestata più volte senza un processo equo, Jarrar è stata detenuta per sei mesi consecutivi in isolamento, in una cella di soli 2,5×1,5 metri. Il suo primo arresto risale al 1989, durante una protesta per i diritti delle donne. La sua famiglia aveva ripetutamente denunciato alle autorità israeliane i maltrattamenti subiti dalla deputata e la mancanza di cure mediche adeguate alla sua condizione di salute. Le immagini della sua liberazione riflettono le condizioni disumane a cui è stata sottoposta durante la detenzione amministrativa.
Tra i detenuti rilasciati c’è anche Shatha Jarabaa, una ventiquattrenne arrestata per un post sui social media in cui criticava la brutalità della guerra israeliana su Gaza. “Sono molto felice! Grazie a Dio sono fuori. Mi hanno trattata molto male in prigione. È stato orribile“, ha dichiarato. Ad accoglierla c’era suo padre, Nawaf Jarabaa, un uomo di sessantatre anni, che in precedenza aveva detto: “Sono felice, ma non troppo felice… Mia figlia è stata arrestata semplicemente per aver espresso le sue idee… La cosa che mi disturba di più è che la gente pensi che gli israeliani abbiano iniziato a comportarsi così con noi solo dal 7 ottobre, ma la verità è che è sempre stato così“.
Osama Shadeh ha, invece, atteso il rilascio della figlia Aseel, una diciassettenne arrestata il 7 novembre 2024 mentre protestava contro l’uccisione di bambini palestinesi a Gaza. “Stava solo sventolando una bandiera palestinese“, ha spiegato Shadeh. “I soldati israeliani le hanno sparato al piede, l’hanno ammanettata e l’hanno accusata falsamente di aver tentato di accoltellarli. Ora che è stata liberata, è evidente che Israele sapeva fin dall’inizio della sua innocenza. Eppure, hanno detenuto una minorenne in carcere per oltre un anno“.
Misure restrittive e tensioni sul rilascio
Per prevenire qualsiasi celebrazione, le autorità israeliane hanno imposto rigide misure di sicurezza, vietando raduni pubblici nei pressi delle prigioni. Domenica, la polizia ha fatto irruzione nelle case di diverse prigioniere in procinto di essere rilasciate, minacciando di annullare i rilasci se le famiglie avessero festeggiato o sventolato bandiere palestinesi.
Nonostante queste restrizioni draconiane, centinaia di persone si sono radunate lunedì mattina per accogliere i prigionieri liberati, sfidando il clima di tensione e la massiccia presenza delle forze di sicurezza israeliane.
Il divieto di esprimere gioia, anche in un momento così significativo, è solo una delle tante manifestazioni della brutalità del regime di occupazione israeliana.
La detenzione amministrativa e il Regime di segregazione
La detenzione amministrativa è una pratica attraverso cui l’esercito israeliano può detenere una persona senza alcuna accusa formale né processo, sulla base di informazioni segrete a cui il detenuto non ha accesso. Questa forma di detenzione, che può essere rinnovata indefinitamente, si basa sulla presunzione che il detenuto possa commettere un reato in futuro. Tra le vittime di questa pratica arbitraria troviamo bambini, difensori dei diritti umani e attivisti politici palestinesi, spesso sottoposti a lunghi periodi di isolamento.
Secondo l’ONG B’Tselem, più della metà dei palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane sono vittime di arresti arbitrari.
Il numero significativo di detenuti palestinesi è una conseguenza dei sistemi di giustizia penale separati che le autorità israeliane applicano nei territori occupati. I palestinesi che vivono in Cisgiordania sono soggetti alla legge militare e processati in tribunali militari. Al contrario, i più di 600.000 coloni israeliani che vivono in Cisgiordania sono sottoposti alla legge civile e penale israeliana e giudicati nei tribunali civili. Questa discriminazione sistematica è una chiara espressione del regime di apartheid imposto da Israele nei territori palestinesi, che permea ogni aspetto della vita della popolazione palestinese.
Testimonianze di abusi sistematici
Un recente rapporto di B’Tselem, intitolato “Benvenuti all’inferno”, ha raccolto testimonianze da decine di palestinesi rilasciati, denunciando un sistema di abusi sistematici e istituzionalizzati nelle carceri israeliane. Gli abusi descritti includono: violenza arbitraria e grave, aggressioni sessuali, umiliazioni, privazione deliberata di cibo e sonno, condizioni igieniche inumane, divieto di praticare la propria religione, confisca di effetti personali e negazione delle cure mediche.
Queste testimonianze, presentate con dettagli agghiaccianti e con inquietanti somiglianze, rivelano un quadro allarmante: a partire dal 7 ottobre 2023, oltre una dozzina di strutture carcerarie israeliane sono state trasformate in veri e propri campi di tortura, dove i prigionieri palestinesi sono sottoposti a sofferenze severe e incessanti in modo intenzionale.