Lezioni da Kabul insieme agli esperti di geopolitica

lezioni da Kabul

Si è tenuto lo scorso 16 settembre il seminario “Lezioni da Kabul” con Antonella Deledda, Roberto Menotti, Cesare Pinelli e Carmine Pinto, ospitato da Stroncature. Al centro del dibattito vi è stata la questione del perché le cose sono andate storte a Kabul e quali possano essere le conseguenze.

In questo articolo ne verranno racchiusi i punti chiave. Quali sono le lezioni da Kabul?

Antiterrorismo, Nation o State Building?

Opinione condivisa da tutti i partecipanti è quella per la quale più che di un’operazione antiterrorismo, quella in Afghanistan, sia stata una Nation Building o, come preferisce precisare Roberto Menotti, uno State Building.

Infatti, sebbene la guerra in Afghanistan sia iniziata come risposta americana all’attacco terroristico alle Twin Towers, di fatto essa si evolse come un vero e proprio tentativo di ricostruzione nazionale o statale. 

Democrazia, consenso e dissenso

Alla luce di ciò, è importante sottolineare tre aspetti, riassunti in maniera schematica.

Il primo, messo in luce dal prof. Cesare Pinelli, è quello relativo al ‘consenso’. Essendo l’America una potenza democratica, nel tentativo di costruzione nazionale afghana si è adottato un modello democratico. Ma il modello democratico, per poter funzionare, richiede un requisito fondamentale: il consenso. Sembra che, questo, non sia mai stato cercato dagli americani: è stato creato un apparato istituzionale totalmente estraneo al consenso afghano. Ciò, in larga parte dovuto da un secondo punto.

Il secondo punto, messo in luce dalla geopolitica Antonella Deledda, esperta di Afghanistan, è quello relativo al totale disinteresse americano nel processo di costruzione di questo Paese. Gli USA si impegnarono solo militarmente, lasciando la ricostruzione politica e istituzionale del Paese all’Europa.  

Il terzo punto, messo in luce in parte da Deledda e in parte da Pinelli, sta nel fatto che, nel processo di ricostruzione dell’Afghanistan (a Bonn), non furono integrati o inclusi gli sconfitti (cioè i Talebani), così come non furono considerati più di tanto gli umori e le volontà del popolo afghano. Ciò ha contribuito a quel senso di estraniazione posto nel primo punto. E, nello specifico, a due scenari.

Né continuità né giustizia fu data

Il primo scenario (evidenziato da Pinelli) è che, a differenza di quanto accadde post Seconda guerra mondiale in Giappone (nella riscrittura della Costituzione giapponese gli Americani lasciarono la figura dell’Imperatore), così come in Iraq (gli Americani crearono una sovrapposizione istituzionale), in Afghanistan non c’è stata alcuna continuità istituzionale. 




Il secondo (evidenziato da Deledda) è che è venuta a mancare la giustizia. La giustizia transizionale. L’errore della comunità internazionale fu quello di anteporre la pace alla giustizia. Il popolo afghano si aspettava di vedere giustizia, si portava dietro tanto terrore, con i mujāhidīn prima e, col tempo, i talebani poi. L’unica cosa che vide il popolo afghano fu solo un enorme giro di soldi e corruzione, ritrovandosi così anche parte dei talebani e mujāhidīn. Come conseguenza, le istituzioni create a Bonn persero di credibilità. 

La State building disinteressata e il dissenso

Roberto Menotti, Editor-in-Chief di Aspenia online, preferisce far leva invece subito su un altro fattore speculare al consenso, ovvero il dissenso. Precisando prima che sarebbe meglio parlare di “State building”, dal momento che il concetto di nazione è una nostra sovrapposizione concettuale occidentale: in Afghanistan c’è stata solo un’aggregazione di istituzioni, ma non si può parlare di nazione. Continua poi sottolineando che il problema non è stato tanto quello si raccogliere il consenso, quanto quello di tollerare il dissenso (caratteristica fondamentale di una democrazia funzionante). Una cosa che non è chiara neppure ora nei nostri Paesi.

Menotti fa notare due ulteriori cose. La prima è che il processo di giustizia transizionale è controverso. Anche per noi. E lo fa citando il processo di Norimberga: sono assetti istituzionali difficili sulla carta e ancor di più nella pratica.

La seconda cosa è che l’interesse militare americano ha avuto una distribuzione di curva perfettamente gaussiana con il picco nel 2011, anno in cui è stato ucciso Bin Laden. Dopodiché è riscesa. Sintomo del fatto che l’unico interesse americano era di fatto ideologico: la missione, dopo l’uccisione di Bin Laden, è finita. Gli americani sono propensi ad abbandonare l’Afghanistan. Ma ciò non era una priorità, c’è dunque stato un errore tattico di Biden nella gestione, nel timing e nella comunicazione. A differenza del Vietnam, non vi era un’opinione pubblica contrastata, dunque è stata solo una scelta di principio.

Occidente, establishment intellettuale e guerra

L’intervento del prof. Carmine Pinto si focalizza più che altro sul problematico rapporto tra democrazie occidentali e interventismo. Dal 1962 praticamente tutte le guerre della Nato sono perse per problemi politici (Cuba, Vietnam, Afghanistan). Dopo la guerra di Corea e la Guerra fredda si ha il problema di praticare la guerra nelle democrazie occidentali a causa del consenso.

La guerra in Vietnam ha avuto un costo di vittime notevolmente superiore a quella afghana, eppure rimane un problema. Ovvero che è insostenibile che una democrazia occidentale del 21° secolo possa fare politiche di potenza.

Se la si voleva vincere la guerra in Afghanistan, la si sarebbe tranquillamente vinta. Il problema sta più che altro nell’establishment intellettuale del mondo occidentale che ha influenze “antiglobaliste”, “antiamericaniste”, “pacifiste”, ecc. L’Occidente non può più fare guerre perché si è instaurato quel sentimento pacifista che annienta la figura di un Occidente che può affermarsi come potenza militare ed egemonica.

Mass media, consenso e informazione

Ma le lezioni da Kabul non finiscono qui. Un ultimo punto che emerge nella discussione, sollevato da Pinelli, ripreso da Deledda e condiviso dagli altri, è la questione dei Mass media, del mondo dell’informazione. Questo è un punto decisivo. 

Mentre Pinelli si concentra sulla spettacolarizzazione delle informazioni di politica estera, così come di quella interna, che sballotta l’opinione pubblica da una parte all’altra, Deledda si sofferma sul fatto che parte del problema sta nel fatto che non si è parlato per niente di Afghanistan in questi anni, disinteressando così l’opinione pubblica occidentale. 

Deledda denuncia la chiusura di 135 media afghani dall’arrivo talebano, spaventata da una prossima “cortina di ferro”, per la quale non si saprà più nulla di lì. 

Queste, alcune delle lezioni da Kabul che possiamo trarre. Molto altro si potrebbe dire, e molto altro ancora si potrà dire, osservando l’evoluzione dei fatti.

Leonardo Mori

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