“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”.
È così che il giovane Holden, protagonista dell’omonimo romanzo di Salinger, misura la qualità di una lettura: la mette in relazione con l’impellente bisogno che questa genera di confrontarsi con l’autore, col quale si sogna di avere un legame così stretto e confidenziale da potersi rivolgere a lui tutte le volte che si desidera.
Probabilmente è sensazione comune a molti quella di sentirsi un po’ soli, spaesati, quasi “orfani” del romanzo che si è appena terminato di leggere. Con l’ultima riga del libro è come se esso smettesse di tenerci compagnia e di coccolarci quando avvertiamo quel bisogno di evasione a cui la lettura sa dare sollievo.
Se ciò è qualcosa che accomuna quasi tutti i lettori, non si può non notare che, nelle modalità con le quali si risponde a questa strana “sindrome d’abbandono”, qualcosa di notevole è cambiato dal passato ad oggi.
Tradizionalmente, tanto l’esercizio della scrittura quanto quello della lettura erano considerate attività assolutamente solitarie ed era la sola casa editrice a fare idealmente da intermediario tra due realtà distanti e non pensate per essere in comunicazione tra loro.
Anche il lettore più appassionato non sarebbe mai arrivato a compiere, nei confronti del proprio autore preferito, un gesto più confidenziale di quello di scrivere una lettera (e neanche allo scrittore in prima persona, ma alla sua casa editrice!) per comunicare la propria ammirazione. Ricordare oggi un panorama del genere fa quasi sorridere, ma era la naturale realtà di qualche decennio fa.
Attualmente, sempre più spesso le case editrici pubblicano libri pensando contestualmente al tour dell’autore nelle librerie delle diverse città; anche le fiere letterarie non mancano mai di presentare all’interno dei loro programmi incontri con lo scrittore o interviste aperte al pubblico, nelle quali è sempre prevista la possibilità di interventi da parte dei lettori.
Sorgono poi continuamente iniziative anche più originali, come le “cene con il romanziere”, letture pubbliche del testo a teatro o l’abbinamento tra l’incontro col narratore e l’esibizione musicale di altri artisti. E se tutto questo ancora non bastasse, l’era social prevede in generale una riduzione delle distanze tra le persone e, di conseguenza, la torre d’avorio nella quale si immaginava vivessero intellettuali e scrittori frana di fronte alle possibilità che offrono Twitter, Instagram e Facebook di comunicare direttamente con gli autori e, addirittura, di “spiarne” il laboratorio creativo o la quotidianità quando decidono di renderla manifesta sui propri profili online.
Nel mondo moderno, in cui i confini tra privato e pubblico sono sempre più sfumati, anche un’attività intima e personale come la lettura sembra aver perso il suo silenzio per diventare un’esperienza quasi collettiva. Ai rari “club del libro” del passato si sostituiscono i nuovi bookblog, in cui il dibattito sulle letture si articola arrivando a coinvolgere persone lontanissime tra loro e moltiplicando esponenzialmente il fenomeno del “passaparola” tra i lettori.
E’ come se, le risonanze che un romanzo produce siano percepibili, prima che negli effetti che il testo fa nascere nel cuore, nelle pubblicazioni social che ne testimoniano la lettura, come se non ci fosse esperienza del libro senza che sia postata una foto dell’opera, magari accanto ad una fumante tazza di caffè, o non si sia realizzato un incontro con lo scrittore senza aver scattato un selfie con lui.
Tralasciando tuttavia il dibattito sul rischio che la continua esposizione delle nostre vite nel mondo moderno svuoti le esperienze del loro significato, ci sarebbe da chiedersi quanto si perde e quanto si guadagna nell’essere lettori di questa nuova generazione.
Da un lato, infatti, sembra proprio che quel desiderio espresso da Holden Caulfield di rivolgersi allo scrittore non appena terminata una lettura sia un sogno facilmente realizzabile, perché aumentano non solo le possibilità di entrare in contatto con gli autori ma anche le chances concrete che loro rispondano a domande e curiosità.
Inoltre, la trasparenza dei processi editoriali appaga le curiosità dei lettori, offrendo un’esperienza di speciale rarità, e attraverso le parole che ogni autore spende sul proprio libro si possono intravedere sfaccettature e caratteri di personaggi di carta e inchiostro, che acquisiscono sempre più corpo e nitidezza nel momento in cui vengono scaldati dalle parole con le quali il loro creatore ne parla.
La possibilità di far vivere il libro oltre se stesso, osservando quello che c’è dietro le sue pagine per conoscere meglio sia l’autore che il processo crossmediale al quale il romanzo si lega, smuove però inevitabilmente i termini tradizionali con i quali si guarda all’opera letteraria.
Quello da sempre considerato un lavoro legato al mondo dell’arte pura assume sempre più le forme di una attività di artigianato, in cui la sacralità di cui si circondava lo scrittore è ridimensionata rispetto al lavoro collettivo che precede la pubblicazione di un testo.
La direzione intrapresa oggi dalle scuole di scrittura di tutto il mondo è proprio tesa a far comprendere come quella dello scrittore sia una professione che più che avere a che fare con la genialità e la sacra ispirazione di un istante è un lavoro di costanza, cooperazione e labor limae, ed è quindi giusto che questa verità non sia celata al lettore appassionato e desideroso di saperne di più sull’opera che ha amato. Quel bisogno di andare oltre il testo è sicuramente più appagato oggi che in passato, ma la conquista in termini di conoscenza è da relazionare con la perdita di un po’ di quella magia nascosta tra le pagine dei libri e dell’aurea misteriosa che circondava il mondo letterario.
Nel tentativo titanico teso a colmare il vuoto generato dalla distanza tra il mondo reale e quello del fantastico, credo non sia tuttavia obbligatorio dover rinunciare a qualcosa. Probabilmente, come abbiamo imparato ad osservare i quadri impressionisti, che alla giusta lontananza evocano lo splendore del paesaggio e da vicino continuano a meravigliare per la minuzia delle pennellate e il lavoro meticoloso dell’autore, nonostante si perda il connotato referenziale della tela, allo stesso modo oggi, per i testi letterari, si può immaginare che sia necessario ricercare una medesima educazione dell’occhio alla “giusta distanza”, che permetta tanto di conservare l’incanto della lettura pura e semplice, quanto di continuare ad affascinare di fronte alla magnificenza della capillare struttura a sostegno dell’impresa artistica.
È così che la bellezza di un’opera d’arte non perde nulla e, forse, guadagna altresì qualcosa, nel momento in cui si manifesta anche nella sua artigianalità; come ogni strumento può connotarsi di un valore positivo o negativo a seconda dell’uso che se ne fa, sta ad ogni lettore conoscere se stesso e comprendere quanti particolari desidera scoprire del testo caro senza che queste scoperte arrivino a fare appassire il suo innamoramento.
Martina Dalessandro