– Di Francesca de Carolis-
“Perché non chiedere a persone con disabilità e ai loro familiari di raccontare il tempo del loro lockdown…”
Non avevo dubbi che l’idea fosse stata di Gabriella, Gabriella La Rovere, che è medico e scrittrice, madre di Benedetta, giovane donna con una rara forma di autismo secondario, che da sempre si batte per dare voce a chi vive situazioni cliniche e familiari difficili.
E le lettere sono arrivate, e tante, e belle e vere, e commoventi, a volte ironiche, persino. Ma mai lamentevoli.
Ne è nato un libro, “Lettere dal mare della pandemia” (Avio Edizioni Scientifiche), curato insieme a Bruna Grasselli, docente di pedagogia, e Maria Matilde Nera, pedagogista. Un libro corale che ci fa affacciare su un mondo che non vogliamo vedere, e che nei mesi del lockdown ha ancora più sofferto di questa nostra cecità. Le persone disabili, come gli anziani… categorie che abbiamo cura di tenere ben confinate in recinti che non ci diano disturbo. Categorie di cui, nei giorni dell’infodemia che pur tanto ci ha travolti e storditi, si è parlato pochissimo, praticamente nulla. E le nostre prigioni sono diventate per loro una prigione nella prigione…
Lettere dal mare della pandemia riempie un vuoto, inaccettabile perché “non si può stare zitti”.
Perché non si possono rigettare nel nulla le emozioni, “la paura, la rabbia, la nostalgia, la speranza…” di due milioni e trecentomila famiglie italiane con una persona disabile grave. Se disagiati lo siamo stati tutti, potete immaginare di quale altro spessore il disagio di queste famiglie.
La paura più grande? Essere separati. E poi “la paura della morte, dell’improvviso dopo di noi, insieme al blocco totale delle attività esterne, delle occasioni di socializzazione, del cosiddetto sollievo, per un certo tempo, impossibilità di reperimento di farmaci antiepilettici, indispensabili alla vita”…
Un brano di una lettera tra tante.
“Caro Tommaso, questa lettera te la devo (…) quante volte in tutti questi anni ci siamo ricordati di essere una squadra, tu ed io? Moltissime. E una squadra affronta sempre gli eventi cercando di fare il meglio. In quest’ultimo scorcio di febbraio 2020 è come se per noi si fosse chiuso un sipario, come se, ancora una volta, tra la tua vita e il resto del mondo, si fosse alzata un’ulteriore barriera”. Così Irene Gironi Carnevale a suo figlio Tommaso. Irene che, sapendo che “la sola cosa che non ti avrei potuto togliere era uscire” ingaggia con altre madri una battaglia perché i loro figli potessero uscire di casa per motivi di sopravvivenza fisica e, soprattutto, psichica. La battaglia, quelle madri, l’hanno vinta, ma “era duro sentire insulti dalle finestre, subire controlli come fossimo criminali da parte di forze dell’ordine non all’altezza del proprio compito, dovendo esibire documentazioni umilianti e palesemente inutili” (a margine, questo in un paese dove la fitta rete delle tante restrizioni del lockdown ha allargato le maglie per permettere ai padroni di cani di accompagnare le loro bestiole intorno al palazzo… un problema, quello degli animali domestici, forse più facile da sentire…).
Molte, è stato sottolineato nel corso della presentazione del libro che si è tenuta questa settimana a Roma, le lettere inviate ai defunti. E chi non c’è più torna in “una corrispondenza d’amorosi sensi”.
“Caro nonno Dino, – scrive Alessandra Aliboni – ho una bimba di 12 anni, Annina, che ha una grave disabilità in seguito a cure fatte per la leucemia… le difficoltà sono state tante, ma lei si è presa la vita a morsi… e siamo andati avanti giorno dopo giorno, fino al 5 marzo 2020, quando tutto è stato chiuso… Per noi è stato come vivere un isolamento nell’isolamento. Servizi educativi, istituzioni… come se avessero ibernato tutto tranne noi. (…) ma Anna sorride, anzi ride di vero gusto. Ce la farà anche stavolta”.
“Caro nonno Giacomo – scrive Adriana Mattorre – di questi lunghi mesi ho accettato distanze e sudditanze psicologiche, sanificazioni e successive sacche di isolamento sperando in una soluzione ma ancora adesso siamo soli. (…) Di questo periodo spero che la società si lasci alle spalle l’egoismo a vantaggio di un sentimento di amore verso le diverse fragilità, aspetto un domani migliore senza emarginazioni sociali. Accetterò questa pandemia se ci sarà un cambiamento nella società”.
Belle lezioni di vita per tutti noi.
Tornando a Gabriella La Rovere. L’idea, spiega, è nata sfogliando pagine del diario lasciato dalla nonna, dove racconta i giorni della spagnola, la grande influenza, che fra il 1918 e il 1920 uccise nel mondo milioni di persone. Quel diario, riletto cent’anni dopo, è preziosa memoria, come preziosissima memoria da consegnare anche a chi leggerà “fra cent’anni” sono queste lettere, ché la memoria, scriveva Montaigne, è “ricettacolo e astuccio della scienza”.
Lettere dal mare pieno di ombre della pandemia, affidate alle onde del nostro sentire come un messaggio in bottiglia, che è “richiesta d’aiuto e testimonianza ai posteri di cosa è stata la pandemia da Covid-19 per quella parte di popolazione che è da sempre in emergenza”.
Leggerle oggi, intanto, è un invito a rispondere a questa richiesta d’aiuto, che se non è mai lamento, (non a caso il sottotitolo è “riemergere e guardare in alto”) è anche grido, per scuotere la nostra tanta, inaccettabile, disattenzione…