L’eredità lasciata dal Menabò di letteratura

Menabò

Il Menabò di letteratura, ideato da Vittorini nel 1959, divenne la rivista che narrò i cambiamenti sociali e culturali di quegli anni tramite la letteratura e il contributo di grandi figure come Italo Calvino, che ne fu anche condirettore.

Alle origini della rivista 

Elio Vittorini dopo la chiusura del periodico «Il Politecnico», diede vita a «I gettoni», una collana di narrativa per Einaudi, che visse dal 1951 al 1958. Successivamente, venne inaugurato a Torino nel 1959 Il Menabò di letteratura che, sotto la direzione di Vittorini e Calvino, si pose come una sorta di prosecuzione delle collane precedenti, soprattutto per lo spazio dedicato al dibattito critico.

Elio Vittorini, il fondatore del Menabò
Elio Vittorini, il fondatore del Menabò di letteratura

Il Menabò fece uscire in totale solo dieci numeri. Il decimo, pubblicato nel 1967 (anno successivo alla morte di Vittorini), è dedicato proprio al fondatore. Questo numero fu curato interamente da Calvino. 

Italo Calvino sottolineò più volte che Vittorini rimase sempre il principale ed unico autore del Menabò. Tanto che poi la rivista milanese, proprio perché era in particolar modo legata al suo fondatore, non proseguì dopo la sua scomparsa.

Cosa raccontava il Menabò di letteratura?

Il Menabò si può definire una delle più significative riviste che raccontano il secolo e il cambiamento che era in corso. In quegli anni l’Italia si stava modernizzando, trasformandosi da Paese agricolo a Paese industriale. 

Negli obiettivi di Vittorini, dunque, c’è anche il far assumere alla letteratura il ruolo di veicolo del cambiamento. Egli definì la letteratura come il termometro attraverso cui misurare la trasformazione della società che erano in atto. Non conta molto ciò che sia cambiato, ma come il cambiamento abbia modificato il modo di ragionare degli uomini. Questo ha portato a delle vere e proprie mutazioni di pensiero, dunque a metamorfosi nell’antropologia stessa.

Vittorini voleva raccontare la modernità e i fenomeni economici, culturali e sociali che stavano attraversando l’Italia, cercando di capire come potevano essere interpretati e come la letteratura poteva porsi nei loro confronti per raccontarli. Questa rivista cardine si interrogò proprio su ciò che debbano fare i letterati mentre seguono i passaggi epocali: la letteratura ha il compito di narrare i cambiamenti della contemporaneità.

Calvino e Vittorini mostrano la loro sensibilità rispetto al mondo circostante già nel primo volume, in cui l’esordio corrisponde ad un’analisi della crisi della letteratura nella società di massa. Il tema del rinnovamento e l’attenzione posta alle trasformazioni sociali e culturali comparirà anche nelle sei lezioni di Calvino, nelle quali applicò alla scrittura questo tipo di analisi e critiche lucide.

Nei vari numeri, poi, vengono affrontate diverse tematiche: dalla poesia, alla letteratura meridionale a quella industriale. Inoltre, i numeri del Menabò permisero di dare visibilità ad autori che poi divennero figure di rilievo. Ad esempio Lucio Mastronardi debuttò proprio grazie alla rivista con Il calzolaio di Vigevano. O ancora, Elio Pagliarani, Amelia Rosselli, Franco Fortini con Astuti come colombe.




La scelta del titolo «Menabò»

Il termine menabò (vocabolo che deriva dal milanese), in tipografia, corrisponde ad un modello di impaginazione realizzato posizionando le bozze del testo e delle illustrazioni in riquadrature precise.

La scelta di intitolare la rivista in questo modo viene accennata nell’introduzione del primo volume:

«Riguardo infine al nome che abbiamo scelto per la nostra iniziativa vogliamo semplicemente avvertire che esso non ha, nelle nostre intenzioni, alcun valore emblematico. Il «Menabò», diciamo, e tutti si sa che cosa sia un menabò, di pratico, di strumentale, nel corso della realizzazione grafica d’ogni lavoro editoriale o giornalistico. Un nome legato a un’idea di funzionalità, e rapido e allegro di suono: per questo ci è piaciuto.»

L’unicità del progetto di Vittorini

Sempre nelle prime pagine del primo volume viene spiegata anche la natura della rivista. I testi sono lunghi perché vogliono rendere la personalità dell’autore, i condirettori vogliono che quelle parole siano uno specchio di chi le scrive. Vittorini, difatti, voleva che il Menabò assumesse i caratteri sia di una rivista che di una collana letteraria. 

«I testi di letteratura creativa che vi andremo pubblicando (di narrativa, di poesia, di teatro) saranno tutti così lunghi che ciascuno di essi dovrebbe poter fare libro a sé ed essere comunque in grado di dare un’idea completa della personalità (al momento) di chi lo ha scritto. Per questo l’iniziativa è da collana»

Al contrario di altre riviste, il Menabò era pensato per ospitare sezioni ed articoli lunghi. Fu poi distintiva la scelta di inserire una sezione dedicata al dibattito critico che vedeva la risposta di Calvino ad un corrispondente. Si venne a creare, così, una sorta di dialogo che aveva lo scopo di interrogarsi e riflettere sui temi emersi in quel dato numero.

Fu una rivista ambiziosa che ebbe due principali obiettivi: sia fare il punto della situazione della letteratura italiana e rilanciarla, sia voler rinnovare la vita culturale e sociale. Vi è, inoltre, il tentativo dei direttori di costituire una guida per l’insieme del fenomeno letterario.

A posteriori, si può dire che gli intenti partoriti da Vittorini, e da Calvino, abbiano lasciato un’eredità alla letteratura italiana, e non, di grande spessore. Essi hanno portato ad una nuova definizione di letteratura, rendendola uno strumento fondamentale per narrare i cambiamenti culturali.

Valentina Volpi

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