Genio deforme, disperato e forse non proprio di buon carattere, l’autore de L’infinito non era certo un latin lover. Come visse e come scrisse, però, i propri insuccessi con le donne? E, soprattutto: l’ipotesi di un Leopardi misogino dovrebbe spingerci a rivalutarne al ribasso l’opera poetica?
A mettermi la pulce nell’orecchio sulla sgradevole ipotesi di un Leopardi misogino e pieno di livore è stato un recente saggio di Walter Siti. In Contro l’impegno, infatti, lo scrittore Premio Strega rievoca le ben poco liriche parole che nel 1828 il poeta, respinto, dedicava alla colpevole. Nella lettera all’amico Antonio Papadopoli, Leopardi scriveva:
«Come mai ti può capire in mente che io continui d’ andare da quella puttana della Malvezzi? Voglio che mi caschi il naso, se da che ho saputo le ciarle che ha fatto di me, ci sono tornato. O sono per tornarci mai. E se non dico di lei tutto il male che posso. L’ altro giorno, incontrandola, voltai la faccia al muro per non vederla»
Un tenore non proprio garbato, ma forse scusabile per l’orgoglio ferito di un giovane innamorato. L’epistolario del poeta, però, rivela che Leopardi non era nuovo a queste “cadute di stile”. In una lettera del 6 dicembre 1822, infatti, con il fratello Carlo, durante il suo primo viaggio a Roma, si lamentava così:
Lasciando da parte, lo spirito e la letteratura, […], mi ristringerò solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di far con esse nelle città grandi. V’assicuro che è propriamente tutto il contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una befana che vi guardi [….]: tutte le donne che qui s’incontrano sono così. Così, è difficile il fermare una donna in Roma come in Recanati. Anzi molto di più, a cagione dell’eccessiva frivolezza e dissipatezza di queste bestie femminine. Che, oltre di ciò, […] sono piene d’ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi non si sa come. E non la danno (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà che si provano negli altri paesi.
Leopardi misogino anche da poeta?
Si prende atto, dunque, che in privata sede il poeta non parlava delle donne in modo particolarmente elegante. Quel che più importa però, poiché si tratta di un artista, è anche altro, cioè: questo Leopardi misogino emerge forse anche nell’opera poetica?
In parte, sì. In particolar modo, nelle cinque liriche (Amore e Morte, Consalvo, Il pensiero dominante, A sé stesso, Aspasia) che compongono il “Ciclo di Aspasia“. Tali poesie, infatti, ripercorrono il tormentato amore non corrisposto che tra il 1831 e il 1835 legò il poeta a Fanny Targioni Tozzetti. Proprio nell’ultimo componimento, Aspasia – in cui, non a caso, il nome di una famosissima cortigiana storica dissimula quello dell’amata -, Leopardi dà il peggio di sé. Scrivendo che a torto un uomo, rendendosi conto di aver idealizzato eccessivamente l’amata, si adira con lei, perché
A quella eccelsa imago
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che ispira ai generosi amanti
la sua stessa beltà, donna non pensa.
Né comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. […]
e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
più che virili, in chi dell’uomo al tutto
da natura è minor. Che se più molli
e più tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.
Un genio da rivalutare?
Ora, scoprire Leopardi misogino dovrebbe indurci a rivalutare l’importanza della sua opera poetica, se non a gettarlo direttamente nel dimenticatoio? No: la strada della cancel culture è un percorso a fondo chiuso. Altrettanto sterile sarebbe fare di questo elemento biografico e tematico un pretesto per cestinare Leopardi e ignorarlo. Più utile, invece, cercare di comprenderlo, senza per questo avallarlo. Compito della letteratura, in fin dei conti, resta lo spingere a pensare il reale in modo più complesso, talvolta perfino scomodo.
Nel valutare quelle parole occorre tenere presenti due elementi: il contesto culturale e l’esperienza biografica. Per quanto riguarda il primo, si ricordi che all’epoca in Italia (e non solo) l’inferiorità femminile era attestata da moltissimi studi di antropometria e frenologia. Nonché da una tradizione filosofica e letteraria millenaria, che trovava uno dei capostipiti più illustri addirittura in Aristotele. Riguardo la seconda, invece, per Leopardi si trattava (dopo la già citata Malvezzi e Geltrude Cassi Lazzari) della terza e ultima delusione amorosa consecutiva. Di più, probabilmente, di quanto un giovane uomo assetato di vita potesse sopportare.
Perché Leopardi, in fin dei conti, nell’amore aveva creduto tanto da definirlo la via maestra per compiere quell’esperienza di sé che rende adulti. Non amare, fino a un certo punto, per il poeta significava restare bambini: non tanto innocenti, quanto del tutto inconsapevoli di chi si sia. Quando la vita – in forma di donna – nuovamente si negò, il rumore del crollo della speranza dovette essere assordante. E nelle liriche del “Ciclo di Aspasia” l’eco di quella disperazione si sente chiarissima:
Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei.[…] Amaro e noia
La vita altro mai nulla; e fango è il mondo.
[A sé stesso]
Che cosa fare delle ferite di Leopardi (e delle nostre)
In luce dei suoi scritti, bisogna ammettere che potrebbe risultare ingeneroso considerare Leopardi misogino. Il poeta di Recanati aveva idee discutibili sul conto delle donne? Assolutamente sì. Come, probabilmente, la maggioranza degli europei suoi contemporanei. Che però detestasse o disprezzasse in gentil sesso, in luce dello straordinario valore che attribuisce all’esperienza amorosa, si rivela un giudizio parziale. Era un uomo deluso e amareggiato. Ed è possibile che Aspasia sia un esempio magistrale di quelle che il poeta Guido Catalano ha definito “poesie di fine rapporto“.
Ora, è evidente che Giacomo Leopardi è stato ben più di un uomo frustrato e pieno di risentimento perché il suo amore non veniva ricambiato. Ridurlo a questo sarebbe un errore. Forse, il miglior servizio che si possa rendere alla sua grandezza, tuttavia, è non elidere alcuna criticità. Senza pietismi e senza scorciatoie, raccontarlo per intero, soprattutto alle generazioni più giovani. Far sapere ai ragazzi e alle ragazze cui tocca studiarlo che non si trattava di un semplice “secchione depresso”. E forse l’immagine più bella di quest’uomo solitario, alternativamente disperato e assetato di vita, ce la consegnano proprio i versi finali della controversa Aspasia. Quando, ormai consapevole di aver amato più un’idea che una persona, il poeta dice di sé:
Che se d’affetti
orba la vita, e di gentili errori,
è notte senza stelle a mezzo il verno,
giá del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar la terra e il ciel miro e sorrido.
Ripartire, ricominciare a cercare e apprezzare la bellezza del mondo dopo che l’amore ha buttato tutto a gambe all’aria. Sorridere riempiendosi gli occhi di meraviglia come forma di vendetta contro l’infelicità e l’abbandono. Ci può essere qualcosa di più moderno?
Valeria Meazza