Leopardi e le sue burle: le sfumature ironiche del Giacomo filologo

Leopardi e le sue burle

Poeta, scrittore, filosofo, ma anche glottologo, traduttore e filologo. Una mente poliedrica che ha dedicato allo studio e al sapere la sua intera esistenza. Una mente, tuttavia, ben lontana da quell’immagine seriosa e inaridita che i più continuano ad associare al giovane conte di Recanati. Così dimostrano lo stesso Leopardi e le sue burle.

Il teorico del pessimismo era munito di un’arguta ironia ed era capace di usare la sua enciclopedica conoscenza per scherzare e per divertirsi.

In particolare, la sua passione per la traduzione e per gli studi filologici lo aveva indotto ad escogitare qualche ingegnosa burla.

Nel maggio del 1817, sullo Spettatore italiano, appare un testo che porta questo titolo: Inno a Nettuno d’incerto autore nuovamente scoperto. Traduzione dal greco del conte Giacomo Leopardi di Recanati. La pubblicazione viene accompagnata da testimonianze che concorrono ad avvalorare l’autenticità dell’Inno greco; Leopardi dichiara che il componimento è stato scoperto da un suo amico, il quale è anche il dedicatario della traduzione in versi italiani che i due hanno deciso di dare alle stampe. Il conte farcisce il testo di note, ma anche di ipotesi e congetture sulla possibile datazione dell’opera e sulla sua attribuzione. Tutto molto credibile, vero? Tanto credibile quanto finto, perché l’Inno è stato scritto dallo stesso Leopardi nel 1816; il poeta ha spacciato per una scoperta quel che invece era solo un ingegnoso divertimento letterario.

Stessa finzione filologica e narrativa si presenta nelle due Odae Adespotae  che il giovane conte pubblica senza commento, ma proponendo sia il testo greco sia una traduzione in versi latini. Per conferire una maggiore credibilità al suo gioco letterario, lo scrittore dichiara di aver tentato con estrema difficoltà una traduzione italiana dei due testi e di averla successivamente cancellata a causa della complessità di tener fede sia alla parola poetica sia al sistema delle rime.

Un ulteriore esempio di falsificazione è costituito dal volgarizzamento del Martirio dei Santi Padri, scritto da Giacomo nel 1826 in un italiano trecentesco e inviato al padre, conte Monaldo Leopardi, come se fosse un testo autentico. L’opera è accompagnata da una cornice fantastica che descrive il ritrovamento del manoscritto nel monastero di Farfa. Monaldo, dal canto suo, non era meno incline a scherzi e provocazioni di questo genere: tra il Leopardi padre e il Leopardi figlio si era instaurato un rapporto letterario fatto di giochi e competizioni. Altro che noiosi!

Annapaola Ursini

 

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