Leopardi e l’amore: come guarire in versi cuore e orgoglio

Leopardi e l'amore

Il rapporto tra Giacomo Leopardi e l’amore è intricatissimo e doloroso: una sua lirica stupenda ma trascurata, Aspasia, ci aiuta a comprenderlo meglio. Comprendendo meglio, alla fine, anche noi stessi, grazie a un antidoto potentissimo contro la violenza che può scaturire da un amore infelice.

Giacomo Leopardi forse non era un misogino incallito, ma professava sulle donne opinioni quantomeno discutibili. Affermando, ad esempio, in una lettera al fratello Carlo durante il primo soggiorno romano, che quelle superficiali delle signorine romane proprio “non la davano”. Quantomeno, non a lui. O ribadendo, in alcuni punti di un gruppetto poco noto di liriche la naturale inferiorità della donna rispetto all’uomo. Colpa dell’epoca, sicuramente. Ma anche di un rapporto quantomeno complesso tra lo stesso Leopardi e l’amore. Un rapporto che, peraltro, diverse liriche del poeta provano, sotto traccia, a mettere in forma e ad addomesticare. Tra queste, la più straordinaria è senz’altro Aspasia: una poesia d’amore e rabbia che compendia la poetica e il vissuto di questo genio della letteratura.




Aspasia: una “poesia di fine rapporto” datata 1835

Se si vuole farsi un’idea del complesso e straziante rapporto tra Leopardi e l’amore, occorre andare a scavare nei Canti. In particolare, leggendo cinque liriche composte tra il 1831 e il 1835 e raggruppate nel cosiddetto Ciclo di Aspasia. Si tratta di A sé stesso, Consalvo, Amore e Morte, Il pensiero dominante e, per l’appunto, Aspasia, che dà il suo nome all’intero gruppo. Cosa accomuna queste liriche? Il fatto di essere state scritte per trasporre in parole un ben preciso vissuto: quello dell’amore non corrisposto di Leopardi per Fanny Targioni Tozzetti.

Aspasia è tanto importante da intitolare questo insieme di poesie proprio perché di tale amore racconta l’epilogo. Un epilogo in cui, dopo lo strazio e la disillusione, dominano l’amarezza, la sconfitta, perfino un po’ di livore. Ma che, al tempo stesso, lascia la porta aperta alla speranza. Non la speranza, beninteso, per il poeta di conquistare il cuore indifferente della donna amata. Quella, per l’uomo precedentemente divorato da una incontrollabile passione amorosa, di ritrovare il proprio equilibrio e la propria dignità. Arrivando a rivalutare l’esperienza vissuta, a comprenderla, a distanziarsene per poi tornare a sorridere.

Un’invettiva contro tutte le donne o contro una sola?

Se si cercano prove di un’ipotetica misoginia da parte di Leopardi nella sua opera poetica, Aspasia è in effetti la lirica in cui poterne trovare. I versi incriminati, in particolare, sono quelli in cui il poeta scrive:

A quella eccelsa imago
sorge di rado il femminile ingegno;
e ciò che inspira ai generosi amanti
la sua stessa beltà, donna non pensa,
né comprender potria. Non cape in quelle
anguste fronti ugual concetto. E male
al vivo sfolgorar di quegli sguardi
spera l’uomo ingannato, e mal richiede
sensi profondi, sconosciuti, e molto
piú che virili, in chi dell’uomo al tutto
da natura è minor. Che se piú molli
e piú tenui le membra, essa la mente
men capace e men forte anco riceve.

In altre parole: non è colpa delle donne, poverine, è solo che loro proprio non ci arrivano. Non possono capire lo strazio degli uomini che, innamorati, illudendosi le idealizzano e trovano in loro una bellezza, una perfezione, un’eternità che non ci sono. Sono fatte così, sono limitate. E gli uomini non dovrebbero farne loro una colpa.

Parole senz’altro sgradevoli. Da contestualizzare, però, in un’epoca che tendenzialmente non brillava per la propria alta considerazione della donna. Nonché all’interno di un percorso formativo che, nei primi anni ’20, aveva portato Leopardi a tradurre il poeta greco Simonide. Autore, tra l’altro, di una famosa Satira sopra le donne, della quale la traduzione leopardiana è ancora una delle più diffuse e consultate. Perciò, questo è quanto? Leopardi denigrava le donne per (de)formazione culturale? In realtà, le cose sono un po’ più complicate di così.

Se chi disprezza ama(va)

Poco più avanti, in Aspasia, si legge infatti:

Né tu finor giammai quel che tu stessa
inspirasti alcun tempo al mio pensiero,
potesti, Aspasia, immaginar. […]
Or quell’Aspasia è morta
che tanto amai. Giace per sempre, oggetto
della mia vita un dì: se non se quanto,
pur come cara larva, ad ora ad ora
tornar costuma e disparir. Tu vivi,
bella non solo ancor, ma bella tanto,
al parer mio, che tutte l’altre avanzi.
Pur quell’ardor che da te nacque è spento:
perch’io te non amai, ma quella diva
che giá vita, or sepolcro, ha nel mio core.

Il problema, insomma, non sono le donne in sé. Lo è solo una, quella che si cela dietro il nome della potente cortigiana moglie di Pericle. Perché?

Perché Leopardi, oltre a essere uno straordinario poeta, è un essere umano. E, come accade spesso, la reazione che suscita in lui il rifiuto del suo appassionato amore è una rivalutazione di chi di quell’amore era l’oggetto. Così, smarcandosi dalla passione che lo aveva divorato, il poeta vede ancora la donna amata come la più bella fra le belle. Eppure, lei ha perso la propria aura di divinità. Tutte le affettazioni, le civetterie, le piccole meschinità emergono in bella vista. Come catene che sul cuore del poeta non hanno più presa. Lui scrive, all’inizio della lirica,

Torna dinanzi al mio pensier talora
il tuo sembiante, Aspasia. O fuggitivo
per abitati lochi a me lampeggia
in altri volti; o per deserti campi,
al dì sereno, alle tacenti stelle,
da soave armonia quasi ridesta,
nell’alma a sgomentarsi ancor vicina,
quella superba vision risorge.

Ma è solo un momento: come la lirica testimonia, il rapporto tra Leopardi e l’amore è ormai definitivamente mutato.

Oltre il rancore e la pura disperazione: Leopardi e l’amore

A chi non è capitato almeno una volta, svanito l’amore, di aver voglia di prendersi a schiaffi per aver lasciato da parte la propria dignità? Per Leopardi non è diverso. Alla donna che un tempo amava, infatti, scrive:

Or ti vanta, che il puoi. Narra che sola
sei del tuo sesso a cui piegar sostenni
l’altèro capo, a cui spontaneo porsi
l’indomito mio cor. Narra che prima,
e spero ultima certo, il ciglio mio
supplichevol vedesti, a te dinanzi
me timido, tremante (ardo in ridirlo
di sdegno e di rossor), me di me privo,
ogni tua voglia, ogni parola, ogni atto
spiar sommessamente, a’ tuoi superbi
fastidi impallidir, brillare in volto
ad un segno cortese, ad ogni sguardo
mutar forma e color.

Tuttavia, il giogo d’amore è ormai caduto. E allora, cosa resta? Gli ultimi versi della lirica rispondono insuperabilmente a questa domanda:

E sebben pieni
di tedio, alfin dopo il servire e dopo
un lungo vaneggiar, contento abbraccio
senno con libertá. Che se d’affetti
orba la vita, e di gentili errori,
è notte senza stelle a mezzo il verno,
giá del fato mortale a me bastante
e conforto e vendetta è che su l’erba
qui neghittoso immobile giacendo,
il mar, la terra e il ciel miro e sorrido.

In quel “il mar, la terra e il ciel miro e sorrido” si trova riassunto l’intero rapporto tra Leopardi e l’amore. Un rapporto infelice, ma reso lavorabile dalla parola poetica.

Proprio in questo consiste la lezione più bella di Aspasia e del suo ciclo. D’amore si può soffrire, sì, ma si sopravvive. E la parola (poetica e non) aiuta a esprimere la tempesta che si è attraversata, nonché a prendere le distanze dalla tossicità di una relazione. Qualcosa che vale la pena ricordare, in un tempo in cui c’è davvero bisogno che i poeti superino in numero gli uomini violenti.

Valeria Meazza

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