Leggere Byung Chul Han per cercare di capire il suicidio degli studenti universitari

Byung Chul Han

Byung Chul Han

La “società della prestazione” teorizzata da Byung Chul Han ci può aiutare a capire il suicidio degli studenti e delle studentesse universitarie

Byung Chul Han è considerato da molti, come per il Los Angeles Times, uno dei pensatori più importanti del nostro tempo. La sue analisi, orientate prevalentemente alla critica delle implicazioni politiche e psico-sociali del neoliberismo, lo rendono uno dei filosofi più interessanti da leggere per comprendere diverse malattie e piaghe del nostro tempo: una di queste è il suicidio di ragazzi e ragazze in età universitaria (e non solo). 

Byung Chul Han parte da un assunto semplice ma che, a suo avviso, è sfuggito a molti pensatori, come Foucault, ovvero che la nostra società non è più caratterizzata dalla negatività, ma bensì dalla positività.

In Italia quasi tutti i suoi saggi sono stati pubblicati, e recentemente ristampati, da Nottetempo, ma è grazie a La società senza dolore, pubblicato da Einaudi, che Byung Chul Han si è insediato a gamba tesa nelle classifiche dei libri più venduti in Italia: in questo saggio, uscito poco dopo la pandemia, Han ci parla di paura e sofferenza. Per lui il mondo contemporaneo è terrorizzato dalla sofferenza e cerca di sfuggire il più possibile dal dolore, anche al costo della propria libertà e, come purtroppo sappiamo, anche al costo della vita

Byung Chul Han e la società della prestazione

Per Byung Chul Han, e questo è evidente nel suo saggio La società della stanchezza, la società disciplinare descritta di Foucault non è più la società di oggi: al suo posto è subentrata, grazie al neoliberismo e alle sue politiche di de-regolamentazione, “una società della prestazione”, caratterizzata non dalla negatività, come teorizzato da Foucault per la società disciplinare, ma dalla positività: la società della prestazione si sottrae sempre di più dalla negatività, i suoi cittadini, ovvero tutti noi, sono “imprenditori di se stessi” e ogni aspetto della loro esistenza, dall’affetto al lavoro, dal pubblico al privato, è caratterizzato dalla stessa cosa: massimizzare la produzione. Questa invasione totalizzante del tempo libero e privato ha prodotto delle conseguenze non indifferenti: la società della prestazione produce una “violenza sistemica” che provoca “infarti psichici”, un esempio è la depressione,  e questo porta Han ad affermare che “non è l’imperativo di appartenere solo a se stessi a causare depressione, bensì la pressione della prestazione”. La depressione, quindi, è la malattia prediletta di una società che soffre dell’eccesso di positività, considerata da Han pericolosa e violenta quanto la negatività, se non addirittura di più. Da qui, secondo il filosofo, si può spiegare il motto dei soggetti depressi, “niente è possibile”: questa affermazione non avrebbe motivo di esistere se non fossimo impregnati in una società che afferma costantemente che “tutto è possibile”. Quando Byung Chul Han, analizzando il soggetto contemporaneo, ci dice che “il soggetto di prestazione si trova in guerra con se stesso” non ci sta spiegando altro che la competitività tossica che dilaga in molti ambienti, compreso quello universitario: una competizione basata sulla performance costante, o come direbbe Han nella prestazione costante, senza errori, dove si confonde un inciampo per una caduta e si scambia un insuccesso per un fallimento. Una competizione che parte prima di tutto da noi stessi e si caratterizza, e questo accomuna molti dei suicidi universitari o dai tentati suicidi, dall’impressione della delusione (che porterà bugie sugli esami e sulla laurea) alla sensazione costante di star fallendo e di non essere abbastanza. La visione della società di Han non si concentra mai nell’ambito accademico-scolastico, come d’altronde tocca poco e niente il ramo prettamente culturale, e questo probabilmente apre alle prime criticità sul suo pensiero, ma la sua teorizzazione del contemporaneo può aiutarci a capire la morte di questi giovani.  

Suicidio: i numeri in Italia

Chi crede che il suicidio e la depressione, che spesso e volentieri viaggiano vicine, non siano un grave problema del nostro tempo si sbaglia di grosso. Una ragazza di 19 anni, a febbraio del 2023, si è tolta la vita nei bagni della sua università, la Iulm di Milano, lasciando un biglietto dove chiedeva scusa, tra le altre cose, per i fallimenti universitari. Un ragazzo di 26 anni, pochi mesi prima, studente universitario di infermieristica a Padova, è morto a seguito di un incidente stradale volontario: a capo del gesto, secondo le ricostruzioni, una finta laurea annunciata. Esempi come questi se ne potrebbero citare non a dozzine ma a centinaia. Ogni anno solo in Italia, secondo recenti dati Istat, si suicidano circa 200 ragazzi e ragazze sotto i 24 anni, quasi tutti studenti e studentesse universitarie. In generale nel nostro Paese si suicidano circa 4.000 persone ogni anno, in grande prevalenza uomini. A livello globale il suicidio, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, si colloca al secondo posto tra le cause di morte nella fascia d’età 15-29 anni. Non solo, secondo diversi studi, pubblicati tra gli altri su Le Science, malattie come la depressione o gesti come l’autolesionismo sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni complice, ma non unica colpevole, la pandemia. In più non si può non considerare che i dati sulla morte volontaria fanno riferimento ai suicidi veri e propri e non tengono conto dei tentati suicidi, anch’essi in aumento nel periodo pandemico e post-pandemico.

Burnout

Un altro infarto psichico descritto da Byung Chul Han, utilissimo per il nostro discorso, è il burnout che riprende in diversi saggi. Il burnout, in estrema sintesi per chi non lo sapesse, è un insieme di sintomi e deriva da una condizione di stress cronico persistente e normalmente, sia in medicina che in buona parte della filosofia contemporanea, viene associato al contesto lavorativo. Il perché venga esclusivamente relegato al lavoro non stupisce più di tanto, visto che lo studio non viene tendenzialmente considerato come un lavoro, anche se ha tutti i requisiti per esserlo. Abbiamo già accennato che il soggetto della società della prestazione è “l’imprenditore di se stesso” ma non abbiamo detto cosa effettivamente comporti: prima di tutto, a livello quasi inedito della storia dell’umanità, il soggetto di prestazione tardo-moderna, secondo la visione di Han, non è sottomesso a nessuno, la divisione tra sfruttato e sfruttatore è molte labile e “al posto della costrizione estranea subentra un’autocostrizione, che si dà come libertà” citando sempre il suo saggio La società della stanchezza. In queste affermazioni sono evidenti anche i limiti del pensiero di Han, che guarda molto alle società ricche e prosperose, ma non è il momento di aprire una critica intersezionale al filosofo. Quello che che qui ci interessa sottolineare è che Byung Chul Han ha ragione quando afferma che “la società della prestazione (che esclude quindi tutti i paesi poveri) è una società dell’autosfruttamnento” e che “il soggetto di prestazione sfrutta se stesso fino alla consumazione”, da qui il burnout e successivamente, e a quanto pare anche spesso, la morte. Lo studio non viene concepito come un lavoro, come abbiamo accennato, quindi è abbastanza normale che non venga contemplato nel discorso sul burnout: normale, si, visto come viene trattato da ogni elemento e ramo della società, ma completamente errato. E il suicidio di centinaia di ragazzi e ragazze ne sono l’evidente prova. In Italia, per di più, i giovani vengono continuamente presi di mira: da fannulloni amanti del divano ad untori in tempi di pandemia, non importa quale sia l’origine di un problema X, state sicuri che la colpa, o buona parte di essa, è dei giovani svogliati. E a questo punto mi sento di fare un appunto: qualsiasi tesi filosofica tardo-moderna o contemporanea che non tenga conto del suicidio dei giovani (e non solo) avrà sempre dei problemi di fondo e non potrà mai rappresentare realmente la nostra società.

Fallimento, vergogna e ansia: mix letale

Tornando velocemente al concetto di fallimento, qui Byung Chul Han, nel suo saggio Psicopolitica, ci decisive come questo sentimento si interseca bene con il soggetto tardo moderno: “nella società della prestazione neoliberale chi fallisce, invece di mettere in dubbio la società o il sistema, ritiene se stesso responsabile e si vergogna del fallimento. In ciò consiste la specialità e l’intelligenza del regime neoliberale: non lascia emergere alcuna resistenza al sistema”. Vergogna, fallimento ed ansia sono un mix letale nelle giuste dosi.

Come si possono contrastare tutte queste morti? Magari avere una risposta in tasca, ed anche Byung Chul Han non offre soluzioni in materia. Sicuramente bisogna lavorare su più fronti: aiuto psicologico per gli studenti, sensibilizzare i genitori, che troppo spesso si prestano ad aumentare esponenzialmente le ansie e le paure dei figli, lavorare sull’università e su come essa vede gli studenti: come numeri, non come persone con difficoltà diverse e con metodi di apprendimento diversi. Tutto questo probabilmente non basterebbe perché il problema dei suicidi di questi giovani, e ho avuto modo di constatarlo mentre scrivevo la mia tesi di laurea proprio sul suicidio degli studenti universitari, non è esclusivamente legato al contesto accademico: è un problema sociale collettivo che tocca più punti, dalla salute mentale alla positività tossica haniana, e fintanto che la cultura, compresi gli intellettuali e i giornalisti, e la politica continuano a trattare questi suicidi come se fossero un problema individuale e non collettivo avremo sempre questo problema.

In Italia si parla tanto, giustamente, di natalità e calo demografico. Iniziare a far di tutto per non far morire i giovani potrebbe già essere una buona idea. O è colpa loro anche questo?

Diego De Nardo

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