Tra qualche ora, vedremo nuovamente andare in scena le commemorazioni commosse per l’anniversario della strage di Capaci, in cui il 23 maggio 1992 hanno perso la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta. Ne Le ultime parole di Falcone e Borsellino, curato da Antonella Mascali e pubblicato qualche settimana fa da Chiarelettere, emerge l’immagine di uno Stato poco credibile che, quando sono in vita, accusa di protagonismo quelli che poco dopo chiamerà eroi negli elogi funebri.
I giorni delle ricorrenze mettono, spesso, il Paese in una posizione piuttosto comoda: si organizza una bella parata, magari con qualche discorso accorato e se va bene si invitano pure i rappresentanti delle istituzioni. Nomi altisonanti, strette di mano, parole commosse per ricordare il sacrificio di chi ha dato la vita per i valori in cui credeva. Come se tutto questo fosse venuto a un’altra latitudine, su un pianeta lontano, dove vigono altre leggi e dove comandano altri sistemi.
1992 – 2022
Anche il trentennale della strage di Capaci, inevitabilmente, porterà con sé tutto il carrozzone che la retorica istituzionale infiocchetta da settimane: il 23 maggio, giorno dell’anniversario della strage in cui Cosa nostra pose fine alla vita di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, dalle prime ore del mattino da Palermo a Roma ci si sperticherà negli omaggi più commossi. Ed è anche giusto così: la Fondazione Falcone darà il benvenuto al presidente Mattarella, a cui Cosa Nostra, tra l’altro ha ucciso il fratello Piersanti, alle rappresentanze di numerose scuole d’Italia e ad altri esponenti delle istituzioni e della cultura.
Le ultime parole di Falcone e Borsellino
Tutti a ricordare lo spirito di sacrificio, il senso di abnegazione e del dovere che hanno portato i magistrati sulle tracce di Cosa Nostra tra gli anni Ottanta e Novanta. Chissà, invece, se troverà spazio nel fiume di citazioni che invaderà Palermo anche un’analisi più approfondita di quel che lo Stato, in quei giorni terribili tra la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, non ha fatto. A farlo, se la cerimonia non prevedrà un momento ad hoc, ci ha già pensato in un libro edito da Chiarelettere la giornalista e scrittrice Antonella Mascali che per anni, ora al Fatto Quotidiano, ha seguito fatti di mafia e corruzione.
Un’antologia della solitudine
Nel suo “Le ultime parole di Falcone e Borsellino”, uscito qualche giorno fa, Mascali riporta proprio i testi delle lettere, delle interviste e delle dichiarazioni dei due giudici uccisi a 57 giorni di distanza tra la primavera e l’estate del 1992. Mascali accompagna gli scritti con un certosino lavoro di inquadramento, attraverso delle note che, nella loro semplicità, lasciano trasparire in quanto poco tempo la situazione sia precipitata. Da queste righe si tocca con mano il senso di paura che attanaglia i due giudici e le angosce per la propria incolumità e per quella dei propri cari.
Traspare anche la quantità di tempo che i due giudici dedicano a quello che, ormai, non è più un lavoro, ma una sorta di missione che li tiene in ostaggio. Particolarmente interessante è il lavoro di selezione che la curatrice ha svolto, decidendo di includere in questa antologia del coraggio gli interventi più significativi, in cui i due giudici parlano del loro senso della giustizia, delle istituzioni e della vita.
Dove inizia la delegittimazione
Ed è qui che qualcosa inizia a stridere con la coreografia degli appuntamenti che, di anniversario in anniversario, ci ricordano quanto ammirevoli siano state le vite di questi servitori dello Stato. Le parole di Falcone e Borsellino, infatti, sono misurate nell’esprimere il loro disagio di fronte a uno Stato che non li capisce o che, addirittura, vede in loro un protagonismo ambizioso. Lo stesso Stato che prima li ha delegittimati oggi li erge a eroi: già nel 1988, è Paolo Borsellino a parlare della smobilitazione del pool antimafia come di uno dei passaggi cruciali per permettere a Cosa Nostra di riorganizzarsi, più forte di prima. Nemmeno Falcone riesce a tacere la sua indignazione. Eppure oggi di queste parole si parla poco.
Ho dovuto registrare infami calunnie e una campagna denigratoria di inaudita bassezza cui non ho reagito solo perché ritenevo, forse a torto, che il mio ruolo
mi imponesse il silenzio. Ma adesso la situazione è profondamente cambiata e il mio riserbo non ha più ragione di essere. Quello che paventavo è purtroppo avvenuto: le istruttorie nei processi di mafia si sono inceppate e quel delicatissimo congegno che è costituito dal gruppo cosiddetto antimafia dell’Ufficio istruzione di Palermo, per cause che in questa sede non intendo analizzare, è ormai in stato di stallo.
Ed è in questa antologia della solitudine dei due giudici che Antonella Mascali ricostruisce le fasi in cui uno Stato ha, nemmeno tanto gradualmente, perso la sua credibilità. Quello Stato in cui prefetti, questori e magistrati partecipano alla mondanità della mafia e accusano Falcone, Borsellino e il pool antimafia in generale di essere alla ricerca della popolarità. Per poi mettersi la cravatta nera e partecipare commossi ai funerali nell’estate del 1992.
Prima rompiscatole, poi eroi
“Beato un popolo che non ha bisogno di eroi”, ha scritto Bertolt Brecht. Quante piazze, strade e scuole portano il nome di coloro che nella vita, semplicemente, avrebbero desiderato fare ciò per cui tanto avevano studiato e si erano impegnati? Senza eroismi, senza vie intitolate e senza finire sotto le bombe: ne Le ultime parole di Falcone e Borsellino è questo attaccamento al proprio lavoro a trasparire nei discorsi dei due giudici. E, ovviamente, a venire fuori ammaccata è anche l’interpretazione delle istituzioni, che hanno costretto delle persone normali a indossare la divisa dell’eroe, anche se, magari, avrebbero preferito evitarsi la scorta e tornare a casa dal lavoro a un orario decente, per abbracciare i propri cari.
Elisa Ghidini