Di Benedetta Piola Caselli
La tensione fra USA/Arabia Saudita e Iran si gioca anche in Libano, e lo fa in un modo così palese da risultare quasi urticante: è questa la ragione per cui oggi non si applaude alla fiducia votata lunedì notte al nuovo esecutivo, pur dopo 21 mesi senza governo, pur in un paese in ci sono 8.000 richieste di espatrio al giorno, e la popolazione è in ginocchio per mancanza di acqua, luce e gas.
Ironia della sorte – o atto premeditato, vai a sapere – lo shortage di elettricità ha colpito anche il Parlamento, che è andato in black-out durante la lettura del discorso del neo-premier sunnita Mikati: “taglia corto”, pare abbia detto il Presidente della Camera, lo sciita moderato Berry, “tanto senza governo non ci danno i soldi”.
“I soldi”, cioè gli aiuti internazionali, sono l’unica carta ancora da giocare per salvare un paese allo stremo e che, se destabilizzato, rischia di diventare una polveriera per tutta l’area del vicino oriente.
E infatti “i soldi” arriveranno, imposti dalla minaccia Hezbollah, formazione estremista e paramilitare sciita, sponsorizzata dall’Iran e fortemente anti-israeliana, e arriveranno senza condizionalità a mantenere in piedi un sistema corrotto e inefficiente, ma moderato e stabilizzante.
L’afflusso atteso di capitali è, in primo luogo, quello del miliardo di dollari che l’F.M.I. dovrebbe avere versato – o sta per versare, a seconda delle dichiarazioni – alla Banque du Liban e, in secondo, i 47 milioni di dollari promessi da Biden per le Forze Armate che, con stipendi che hanno perso l’80% del proprio valore, potrebbero diventare altrimenti il motore di un colpo di Stato contro cui scenderebbe in campo Hezbollah, scatenando una guerra civile.
Questo è il punto della questione, ben chiaro a tutti i libanesi, che si vedono ancora una volta governati dagli stessi soggetti che avevano cercato di debellare, una volta per tutte, con i violenti moti di piazza del 2019.
Ma ci sono dei risvolti ulteriori: il primo è l’evidente perdita di influenza geopolitica della Francia, se ancora pensava di averne una al di fuori di un contesto europeo unitario; e la seconda è l’insieme di mosse e contromosse da guerra psicologica, che diventano evidenti esaminando la calendarizzazione degli eventi e che disturbano enormemente i libanesi di ogni posizione politica.
Quanto al primo punto, bisogna premettere che l’unica proposta sensata per risolvere la crisi di governo era quella dei cugini d’oltralpe, ed era una proposta ampiamente condivisa dai giovani e dalle élites culturali, ma totalmente osteggiata dai gruppi di potere.
Si trattava di questo: un governo tecnico di esperti laici, indipendenti dai partiti e dalle confessioni religiose, che potessero mettere mano alla legge elettorale e traghettare il Libano fuori dalla crisi.
Per capire la questione, occorre ricordare che il paese è vittima dei ricatti incrociati degli attori istituzionali, che sono scelti ed agiscono in base all’appartenenza religiosa, che è anche definizione identitaria.
Infatti, per il combinato disposto della Costituzione, degli accordi di Ta’if del 1991 e di regole consuetudinarie, il Presidente della Repubblica è sempre un cristiano, il Primo Ministro è sempre un musulmano sunnita, il Presidente della Camera è sempre un musulmano sciita, ai Drusi spetterebbe la presidenza del Senato (che però non è mai stato formato). Il Parlamento è per metà cristiano e per metà musulmano – ciascuna religione organizza la rappresentanza secondo la prevalenza dei propri gruppi – e i ministeri sono divisi in quota.
Al Presidente della Repubblica pare – ma è contestato – che debba spettare un “terzo di blocco”, cioè la scelta di un terzo di ministri a lui graditi.
Questo assetto, che dovrebbe garantire stabilità di governo, è invece diventato fonte di infiniti mercanteggiamenti sui ministeri ed è la ragione per cui, in quasi due anni, il Libano non è riuscito a formare un governo.
Soprattutto, è uno dei fattori determinanti nel mancato ricambio della classe politica, ancora composta dai vecchi capi fazione della guerra civile o dai loro parenti – basti pensare al Presidente Michel Aoun o all’ex-premier Sa’d Hariri, figlio del mediatore degli accordi di Ta’if.
Questo sistema di cooptazione quasi clanica ha favorito la corruzione: lo stesso premier attuale, il miliardario Mikati, è già stato Presidente del Consiglio nel 2013 e coinvolto in un enorme scandalo di malversazione di fondi per la ricostruzione ed il sostegno abitativo.
La proposta francese di un esecutivo di transizione “laico”, ribadita da Macron immediatamente dopo le esplosioni del 4 agosto 2020, avrebbe tagliato le gambe a questo sistema e permesso l’accesso al potere a soggetti nuovi e dedicati.
Ovviamente, non è passata.
Occorre precisare che il secondo grande attore straniero della scena politica libanese, cioè gli Stati Uniti in tandem con l’Arabia Saudita, non ha mai avuto come priorità l’appoggiare governi trasparenti ed efficaci, ma piuttosto di non lasciare terreno all’ Iran, finanziatore di Hezbollah, in un paese confinante con Israele: in questo quadro un governo di vecchia politica, di cui si sa come spingere i bottoni, è certamente più affidabile di uno nuovo e imprevedibile.
Hezbollah nasce nel 1982, in piena guerra civile, come scissione estremista di Amal, partito di rappresentanza sciita.
Negli anni si è imposto al consenso popolare perché ha saputo sostituirsi allo Stato, grazie al finanziamento iraniano, nella creazione di una rete di assistenza sociale per le persone più vulnerabili.
Hezbollah non ha mai cessato di professare la sua missione anti-israeliana e, in quest’ottica, ha costituito una forza paramilitare che è considerata più potente e meglio equipaggiata dello stesso esercito libanese.
Sono riconducibili ad Hezbollah numerose azioni dimostrative al confine, le ultime delle quali, in agosto, hanno portato al bombardamento ritorsivo israeliano di alcuni villaggi nel sud del Libano, per fortuna senza vittime.
Il sostegno internazionale al “nuovo” esecutivo può facilmente essere letto in funzione anti-Hezbollah, come risulta evidente esaminando anche solo i fatti dell’ultima settimana, decisiva perché ha visto finalmente l’accordo del Presidente Aoun sulla lista dei Ministri, e il voto di fiducia del parlamento al nuovo esecutivo.
Tutto parte dal 17 agosto, giorno in cui il segretario di Hezbollah Nasrallah dichiara alla stampa che l’Iran invierà delle petroliere per supplire alla mancanza di carburante in Libano.
Bisogna precisare che questo annuncio segue a quello del taglio delle sovvenzioni statali al prezzo del carburante, cosa che scatena l’accaparramento delle ultime risorse a prezzo calmierato e lancia la corsa al mercato nero.
Quasi tutto il Libano rimane senza energia elettrica, che vuol dire anche senza acqua; lo Stato riesce a garantire poche ore di elettricità al giorno e i prezzi del carburante per i generatori privati schizzano alle stelle.
I giornali internazionali riportano di code lunghissime, anche otto ore, alle code di benzina per ottenerne pochi galloni, ma la situazione più pericolosa riguarda gli ospedali, che cominciano a dimettere i pazienti e non accoglierne di nuovi per timore di non potere garantire operazioni e ventilazioni forzate. Il sito di notizie indipendente 961 stima che il 40% dei medici e il 30% degli infermieri ha già lasciato il Libano.
La situazione diventa talmente tesa, che quasi ogni giorno si ha notizia di morti in scontri armati dovuti all’esasperazione. Nella provincia di Akkar, l’esplosione di una cisterna di carburante abusivo, destinato al mercato nero, uccide 31 persone e ne ferisce 200.
Il petrolio iraniano diventa l’argomento dell’estate.
Arriverà davvero? E dove, visto che il porto di Beirut è distrutto? E come, visto che l’Iran è sotto embargo americano? E che cosa succederà poi al piccolo Libano, sarà trascinato nelle ripercussioni per quella violazione?
Alla mossa iraniana segue subito quella americana.
Immediatamente dopo l’annuncio, Giordania ed Egitto si ricordano del vicino in crisi, promettendo forniture di energia elettrica.
Fino ad ora, però, non si sono visti sviluppi concreti.
E’ in questo quadro che, finalmente, il Presidente Aoun dà il suo placet alla lista dei ministri presentati dall’ incaricato Mikati.
L’assenso è quasi inaspettato.
E’ il venerdì 10 settembre.
La domenica comincia a circolare sulla stampa la notizia che le petroliere iraniane sono effettivamente arrivate, e che il carburante entrerà in Libano via Siria.
Il lunedì Biden annuncia che invierà 47 milioni di dollari per le forze armate, ridotte alla fame dalla polverizzazione degli stipendi, e vero cuore di una potenziale guerra civile che vedrebbe Hezbollah trionfare.
Il martedì il giudice Tarek Bitar spicca un mandato di arresto per l’ ex ministro delle infrastrutture, accusato di negligenza per lo stoccaggio delle 7500 tonnellate di nitrato di ammonio che hanno fatto esplodere il porto di Beirut e raso al suolo un terzo della capitale il 4 agosto 2020, avvenimento che la maggior parte della popolazione attribuisce ad un sabotaggio israeliano contro armi Hezbollah nascoste al porto, poi scappato di mano (l’ipotesi resta una pista investigativa). L’attenzione torna sulla responsabilità di Hezbollah nei tragici avvenimenti dell’estate scorsa.
Il mercoledì il Premier Mikati annuncia che il miliardo di dollari del F.M.I. arriverà nella Banque du Liban senza condizionalità, per rispondere all’emergenza del paese.
Il giovedì aumentano di nuovo le tensioni con Israele, che mira a trivellare in mare il gas in una zona contesa.
Il venerdì, mentre gli americani invitano nuovamente i paesi musulmani a “normalizzare” i rapporti con Tel Aviv, arriva l’annuncio che il petrolio iraniano è veramente arrivato, e il primo carico si trova nella regione della Bekaa.
Il sabato cominciano le distribuzioni che avvengono, secondo quanto dichiara il segretario di Hezbollah Nasrallah, in questo ordine: ospedali, istituzioni benefiche, orfanatrofi, scuole, istituzioni pubbliche, famiglie bisognose anche cristiane perché, aggiunge, “la povertà non fa distinzione”.
Il fatto scatena l’entusiasmo della popolazione.
La domenica vengono scoperte, per una telefonata anonima, 20 tonnellate di nitrato di ammonio proprio nella valle della Bekaa.
Come ricordato sopra, il nitrato di ammonio, che può essere usato sia come fertilizzante che come esplosivo, è alla base della strage dello scorso agosto: il piccolo accadimento ha dunque un impatto emotivo profondissimo, perché riporta alla possibile responsabilità di Hezbollah per quella tragedia.
E’ come un memento alla popolazione:
“Hezbollah ora vi aiuta, si, ma guardate di cosa è responsabile”.
Dulcis in fundo lunedì, appena prima della votazione della fiducia al nuovo esecutivo – che alcune forze politiche si rifiutano di votare – arriva l’annuncio della scoperta di una “cellula terroristica” in Libano di un paese straniero, di cui però non vengono forniti i dettagli.
Il messaggio a tutti è chiarissimo.
La fiducia è stata votata lunedì nella notte, si ha ufficialmente un nuovo governo libanese.
“E’ l’ennesima prova che siamo vittima di un gioco più grande di noi, da cui non ci libereremo mai”, è il commento più diffuso.
Non c’è speranza che gli aiuti internazionali vengano bene spesi “Perché dovrebbero? Cosa c’è di diverso rispetto al passato?” si chiedono, ma la gente è realistica rispetto all’alternativa del collasso economico, e spera che arrivino “in basso” almeno le briciole.
Quando cerco di essere incoraggiante e faccio notare che qualche segnale positivo almeno c’è, e per esempio la lira libanese ha ripreso valore rispetto al dollaro un giovane intellettuale, che ha studiato in Italia, si stringe nelle spalle e riassume, con la solita ironia che contraddistingue i libanesi, “Certo. Come dite voi, bene ma non benissimo”.