L’episodio razzista su Trenord di cui è stata testimone Nogaye Ndiaye, la giurista italo-senegalese conosciuta sui social come Le regole del diritto perfetto, conferma che è ipocrita dire che la società italiana non sia razzista, dato che gli episodi razzisti accadono quotidianamente e trovano il tacito consenso di ogni cittadino che non si oppone attivamente a questa patologia sociale. Abbiamo parlato con Nogaye (che al momento sta presentando la sua opera d’esordio come autrice) del razzismo in Italia, dei comportamenti collettivi che continuano a legittimarlo e se ha senso continuare a lottare per un’equità universale che sembra sempre più lontana. Nonostante le enormi difficoltà rilevate in questa intervista, alla fine la risposta alla domanda è stata: sì.
Cominciamo con il tuo saluto preferito: buonsalve Nogaye e grazie per la tua disponibilità. Raccontaci, chi è Nogaye Ndiaye?
Buonsalve! Non so bene come definirmi, se non una persona che ha tante cose dentro di sé, ha diverse caratteristiche identitarie che per tanto tempo non ho accettato. Invece, oggi sono molto orgogliosa della mia identità, di essere senegalese, italiana, neuro-divergente e anche una fantastica giurista perché finalmente sono riuscita a laurearmi, con tanta fatica, ma ce l’ho fatta!
Congratulazioni per questo traguardo! Possiamo aggiungere che sei anche considerata un’attivista per i diritti delle minoranze?
Quella dell’attivista è un’etichetta che proprio non mi piace, non mi definisco così perché non ho mai scelto di fare l’attivista, piuttosto è sempre stata un’etichetta appiccicata dagli altri. Semplicemente, all’improvviso ho deciso di utilizzare la mia voce per denunciare una serie di episodi che avevano caratterizzato la mia vita e continuavano a caratterizzarla.
Penso che questo non faccia di me un’attivista, piuttosto mi penso come una persona che fa “resistenza attiva“, nel senso che mi pongo in modo attivo davanti a un sistema che non voglio più accettare perché è un sistema estremamente oppressivo sotto tanti punti di vista diversi. La pagina Le regole del diritto perfetto mi ha aiutata ad unire l’amore per il diritto con l’amore per la lotta antirazzista e per la lotta in generale. Sono della Vergine: determinata, ma anche molto testarda.
La pagina Instagram Le regole del diritto perfetto è infatti un contributo molto prezioso per la lotta antirazzista e per il diritto all’equità
Certo, non sto rinnegando la mia natura da attivista, semplicemente mi rendo conto che così quello che faccio viene dato quasi per scontato e mi viene addossata una responsabilità dell’educazione che non è mia. Qualche giorno fa, durante un panel di dialogo sull’Africa, una ragazza alza la mano ed esordisce con «Sì tutto molto bello, ma nel concreto cosa fai?» e io ho pensato che non è mia la responsabilità di attuare degli interventi per arginare il fenomeno, già discutere del libro e aver messo a disposizione la mia voce è un atto concreto, il libro dove riporto la mia esperienza è concreto.
Ho detto alla lettrice che anche lei, come tutti, può essere attiva nella vita di ogni giorno e le ho detto che l’attivismo non è una cosa da giganti, non è solo scendere in piazza ma è combattere tutti i giorni con piccoli atti di resistenza quotidiana, che vuol dire rispondere al controllore sul treno o a una cena a tavola far notare una frase razzista.
Di Nogaye Ndiaye colpisce soprattutto il modo di comunicare, è una giurista preparatissima e nonostante ciò ha deciso di rendere popolari le sue competenze attraverso la scelta del linguaggio, invece di mantenerle elitarie. Nogaye considera il razzismo come una rete sociale contorta, asserendo che non può essere meramente ricondotto al singolo individuo, ma è dovuto anche al clima di omertà che si genera, il silenzio è complice del sistema malato.
Uno degli inganni più grandi del razzismo è che viene considerato un problema individuale e soggettivo, soprattutto dovuto all’ignoranza. La problematica reale è che delegando il fenomeno all’ignoranza o alle intenzioni del singolo individuo si invalida la portata sistemica del razzismo. L’esempio del treno è lampante perché dimostra che non è la persona singola il problema, ma la società che avalla il razzismo. Di conseguenza, questa è una società razzista, tutto il vagone ha dimostrato il razzismo manifesto che aveva.
Quindi, i passeggeri hanno manifestato il razzismo attraverso la scelta di indirizzare la loro indignazione verso la frase detta da te in un impeto di rabbia e non al controllore che aveva minacciato di morte i passeggeri neri senza biglietto?
Esattamente, il non indignarsi per la minaccia di morte a causa di un semplice biglietto perché per i passeggeri il problema non è stata quell’interazione, giustificata con «Il controllore era arrabbiato», ma non è stato giustificato il fatto che io, in quanto parte di quella minoranza, mi fossi arrabbiata e avessi definito il Paese di m***a. Questa cosa fa capire che il problema non era del controllore e quindi del singolo, ma è collettivo in una società che ha pienamente normalizzato il razzismo, se una persona vi si oppone diventa la persona il problema.
Per Nogaye questo è il grande cortocircuito del razzismo, in questo modo non si troverà mai una soluzione soprattutto perché scatena indignazione affermare che l’Italia è un Paese razzista, la parola razzismo fa paura, ma in realtà è una delle tante manifestazioni delle patologie di una società, come il sessismo, come l’omolesbobitransofobia. Tutto questo odio nei confronti di gruppi che sono già marginalizzati dalla società è un problema sociale, l’Italia è un Paese razzista e quella di Nogaye Ndiaye altri non è che un’analisi sociologica del fenomeno.
Sono scene quotidiane, spiego sempre che quando parliamo della violenza di genere nominiamo la piramide, con la punta che è il femminicidio e in basso ci sono quei comportamenti come la goliardia, le molestie, lo stalking eccetera. Con il razzismo è la stessa cosa, alla punta della piramide abbiamo gli omicidi e le aggressioni fisiche a sfondo razziale. Scendendo ci sono le micro-aggressioni, cioè tutti quegli episodi che avvengono nel quotidiano e che vengono normalizzati, come aggredire impunemente delle persone per un biglietto del treno e col benestare dei viaggiatori.
La tua rabbia è facilmente comprensibile
E sapete qual è la cosa che mi ha fatto più arrabbiare? Il controllore sin dal principio cercava il consenso del treno al suo atteggiamento razzista. Diceva frasi come «Sono stanco!» per legittimare il comportamento. Quando cerchiamo di far notare ad una persona che ha avuto un atteggiamento razzista la preoccupazione è che queste persone non vengano definite razziste, piuttosto che ascoltare il perché sia stata palesata questa osservazione.
Un problema collettivo è il non voler mettersi in discussione. Erroneamente, si parte dal presupposto che l’Italia non sia un Paese razzista, si cerca sempre la colpa nell’altro e mai in sé stessi. Questo è grave perché non si affrontano discussioni che non prescindono dall’affermare «Io non sono razzista», non si prende consapevolezza che il fenomeno del razzismo è molto più grande e complesso.
Credi che il razzismo sia un problema generazionale o coinvolge tutte le generazioni, dai più giovani agli anziani?
Sono sincera e l’ho scritto anche nel libro, ho una forte avversione per gli anziani, mi hanno sempre trattata peggio. Non va bene che si giustifichi il loro comportamento razzista con la frase «Ma sono anziani», «Ma sono di un’altra epoca». Questa è una grandissima bugia perché come ci sono gli anziani razzisti sessisti omofobi, ci sono gli anziani davvero aperti di mente, come mia nonna o un signore che ho conosciuto in Veneto, che ha aperto un’associazione contro il razzismo e tutte le altre forme di discriminazione a 82 anni.
Mi sto rendendo conto che il problema sono le persone di tutte le età, anche i bambini. Ci sono delle madri che vengono a raccontarmi delle cose aberranti che succedono ai loro figli e mi chiedo come sia possibile che i bambini manifestino questa cattiveria. La risposta è che ascoltano gli adulti, è frutto di quello che sentono in casa e che vedono nei telegiornali, è una narrazione comune. Quindi, è necessario portare una contro-narrazione.
Sembra ancora più importante orientare la società ad un’educazione inclusiva
Assolutamente. Un’altra cosa fastidiosa notata in questi mesi di tour è che quando racconto delle micro-aggressioni, del fatto che il razzismo è sistemico eccetera, mi viene sempre detto «Ma nella tua vita non hai mai incontrato persone bianche buone?» e altre frasi simili. Dalle persone che subiscono delle discriminazioni si pretende che evidenzino comunque le esperienze positive ed è un’altra grave falla nel sistema. Perché Paola Egonu ha dovuto dire a Sanremo «Io amo l’Italia»? Perché bisogna sottolinearlo, perché bisogna ringraziare? Non è accettabile tutto ciò.
Evidenziare queste crepe nel sistema è essenziale, oggi più che mai
Certo, anche perché le persone sono talmente abituate e consapevoli che il loro comportamento è legittimato, che nel momento in cui ricevono una risposta cedono, perché su questo tema non sono abituate al contraddittorio, al pensiero critico. C’è una mia amica che si occupa come me di divulgazione online e ha iniziato ad utilizzare la “strategia del perché”, se tu chiedi a queste persone perché fanno determinate cose non hanno una risposta sensata, non c’è una base logica, è il cortocircuito di cui parlavo prima. Non esiste corrispondenza empirica nelle loro dichiarazioni.
Ho intrapreso gli studi da giurista per dare una risposta basata su studi e dati reali a queste persone, come i report UE o i dati Istat, come per i crimini, se siamo una minoranza è assolutamente illogico pensare che tutti i reati vengano commessi dalle persone nere.
In un video che hai condiviso sui social definisci il razzismo un cancro strutturale, nell’utilizzo di queste forti parole è racchiusa la tua rabbia. Vuoi dirci qualcosa di più?
Nogaye ci risponde che la rabbia è un motore che muove il mondo, ma in lei sta scomparendo lasciando il posto alla rassegnazione che, sottolinea, è molto più pericolosa. Nogaye Ndiaye vorrebbe provare ancora quella rabbia, non trovarla significa aver perso le speranze e lei afferma di averle perse da tempo. Dovrebbe far riflettere che Nogaye sta anche mettendo in discussione il suo desiderio di diventare mamma e considera un atto altruista non far crescere un bambino nero in una società in cui passeranno generazioni prima di vedere il razzismo debellato.
Anche in tour mi sono resa conto che su Instagram, nelle nostre bolle di attivismo virtuale, utilizziamo un linguaggio che capiamo solo noi, mentre fuori il mondo brucia.
Ti va di raccontarci qualche episodio?
Non è un solo episodio, sono tanti. Una criticità sono i finti alleati, come la signora che era sul treno o tutte le persone venute alle mie presentazioni per ricevere i complimenti perché trattano le persone nere come persone. Ho avuto tante discussioni, una volta una signora mi ha detto di aver dedicato la sua vita ad insegnare italiano alle persone straniere, chiedendomi dove fossimo noi in quel momento. A me fanno più paura loro, che credono di essere nel giusto e non sono disponibili a fare una ricostruzione del pensiero, non per senso di colpa, ma per diventare consapevoli che il non discriminare persone nere non è una qualità.
Anche il termine alleato presuppone bisogno di aiuto, ma non ne abbiamo bisogno. La narrazione degli aiuti umanitari è sbagliata, quest’immagine distorta dell’Africa con i bianchi che decidono di salvarla mi fa veramente arrabbiare. Grazie a questa narrazione, quando sono partita per il Senegal avevo dei pensieri di cui oggi davvero mi vergogno. La verità è che è stato l’Occidente a rendere l’Africa bisognosa di aiuto, un continente è stato distrutto e ora si pretende di salvarlo, è cortocircuito. Si parla di guerrafondai dai tempi delle crociate, questo è revisionismo storico e fa paura.
Giunti a questo punto, consapevoli del fatto di non poter mai comprendere al cento per cento la condizione discriminatoria che Nogaye e tutte le persone nere subiscono in questa società, le abbiamo chiesto di continuare a sentirsi libera di esprimere la sua rabbia.
Questa è una cosa importante da dire, la frase «Ti capisco» in genere mi innervosisce, nessuno potrà mai capire completamente la sofferenza e il dolore di un’altra persona, a maggior ragione se fa parte di una categoria marginalizzata e subisce oppressione.
Sul finale, Nogaye si sofferma sul fatto che confondere il razzismo con la xenofobia (che erroneamente viene chiamata razzismo al contrario dagli uomini bianchi in Africa, è la paura del diverso dovuta a secoli di colonizzazione più che a un pregiudizio) e altri comportamenti discriminatori in base alla provenienza come l’antimeridionalismo sia un’altra criticità che limita l’arginamento del fenomeno.
Al momento dei saluti, abbiamo augurato a Nogaye di ritrovare la speranza, unendo la nostra voce al suo urlo di rabbia. Non possiamo capire davvero cosa si prova a subire quotidianamente le discriminazioni razziali, però, come ci ha suggerito Nogaye, anche solo ascoltare e mettersi in discussione può essere un inizio nel risolvere il problema e sperare in un futuro più giusto per le nuove generazioni.