Di Zar Abdul
Che ci sia consapevolezza o meno all’interno della società italiana, è indubbio che questo paese (così come diversi paesi industrializzati e non) è sorretto dal predominio della figura maschile e dai privilegi che derivano dalle radici del maschilismo.
Sì, perché essere uomo, specialmente se bianco ed eterno, significa avere dei privilegi, e ciò non vuol dire avere in automatico una vita più agiata, al contrario, significa che il proprio essere uomo non sarà mai motivo di discriminazione o vessazione.
Nei primi dieci mesi dello scorso anno, sono stati 95 gli omicidi in Italia con vittime femminili, quasi uno ogni tre giorni
Secondo i dati ISTAT che si riferiscono al 2018 ben l’80% degli omicidi commessi sono avvenuti in ambito familiare/affettivo, e tutto questo non è un caso se pensiamo al fatto che fino a pochi decenni fa era in vigore una delle leggi più maschiliste di sempre: la legge sul delitto d’onore.
Solo nel 1981 infatti veniva finalmente abolita questa norma e con essa l’istituzione del matrimonio riparatore.
L’art. 587 del codice penale infatti definiva il delitto d’onore come:
“Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.”
Che nell’ordinamento giuridico l’uccisione di una donna in quelle circostanze fungesse da attenuante pone le basi e le radici (o forse meglio dire che le rafforza) al concetto della donna vista come un oggetto in possesso dell’uomo, con facoltà di quest’ultimo disporne come vuole fino ad arrivare a toglierle la vita.
Il codice penale prevede una pena non inferiore ai 21 per l’omicidio, quindi parliamo di una pena, quella prevista per il delitto d’onore, che nella peggiore dei casi risultava essere di un terzo della pena attualmente prevista per il delitto contro la vita. Il valore che la società dava all’esistenza della donna era, dunque, solo questo.
Il fatto che questa legge sia stata abrogata (anche se solo 39 anni fa) non deve ingannarci. Esiste ormai quello che possiamo serenamente chiamare trend di pene leggere per i femminicidi, e i casi sono numerosi.
Il caso dell’omicidio di Anna da parte di Massimiliano Gilardoni è senz’altro uno di quelli che meritano di essere ricordato.
Lui era un uomo sposato con figlio ma continuava, in maniera insistete, a corteggiare la giovane donna; lei, invece, lo respingeva. Anziché accettare il rifiuto di quella che tuttalpiù sarebbe potuta sfociare in un rapporto extraconiugale , Massimiliano non demorde e di fronte ai continui rifiuti sgozza Anna il giorno 10 Aprile del 2002.
L’uomo viene quindi condannato a 16 anni dopo il primo grado di giudizio, successivamente ridotti a 14 anni e 6 mesi, ma l’uomo incredibilmente esce dal carcere dopo appena 2 mesi ottenendo i domiciliari in una casa di cura dalla quale uscirà (in totale libertà) dopo soltanto 10 anni.
Questo è un caso eclatante ma in realtà è uno solo dei tanti esempi che abbiamo su come in realtà un certo privilegio maschilista continui ad essere sostenuto non solo tacitamente dalla società, ma in maniera piuttosto palese anche dalla legge.
Da notare come questi siano soltanto i casi di omicidio, ma cosa succede se iniziamo ad includere i casi di abusi, di violenza verbale e fisica, di discriminazione e vessazione, di stalking, revenge porn o body shaming?
In tutti questi casi poi, laddove esiste una disciplina legislativa ci sono lacune per quel che riguarda la consistenza della pena, mentre in altri casi manca proprio una legge che tuteli le vittime.
Dal punto di vista sociale invece, osservando un po’ la reazione dei mass media quando siamo in presenza di femminicidio, si nota come spesso si tende quasi ad alleggerire in qualche modo la figura del carnefice, proponendo frasi come “follia d’amore”, “innamorato follemente”, “delitto passionale” ecc… ecc…
Come se il troppo amore o l’amore non corrisposto, potesse in qualche modo giustificare l’uccisione di una donna, invece di sottolineare che l’amore vero nulla ha a che fare con la violenza.
Altre volte si va alla caccia di una causa scatenante da attribuire alla donna, ponendo l’attenzione su come fosse vestita o su i suoi atteggiamenti, ora provocatrici, ora spericolati.
In questi ultimi casi la tendenza è proprio quella di addirittura colpevolizzare la vittima di una violenza e di un omicidio.
In precedenza, ho menzionato il matrimonio riparatore perché credo che per spiegare un minimo la lunga lotta delle donne per l’ottenimento dei diritti più basilari in questo contesto, non si possa prescindere dal parlarne.
L’art. 544 del codice penale infatti recitava così:
“Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali”.
Tale disposizione stabiliva in definitiva che il colpevole di una violenza carnale poteva di fatto estinguere il suo reato, riparando ad esso, attraverso il matrimonio (chiaramente forzata) con la vittima. Non solo, questo suo grande gesto di legittima disumanità assolveva dal reato anche eventuali partecipanti alla violenza.
Il corpo della donna, i suoi sentimenti, la sua volontà, i suoi traumi erano fattori completamente inesistenti e inconsistente per la legge e per la società.
Se è vero che nel ‘81 questa legge venne abrogata è necessario, tuttavia, chiarire che lo stupro divenne un vero e proprio reato contro la persona solamente nel 1994, vale a dire 26 anni fa. Prima di allora, lo stupro era considerato solo come reato contro l’onore, in cui paradossalmente non era l’onore del violentatore ad essere leso (oggi non abbiamo dubbi che uno stupratore sia un uomo senza onore), bensì quello della vittima, che oltre la violenza carnale subita, ne subiva una seconda essendo costretta a sposare il suo carnefice. Una doppia violenza che, dunque, avrebbe vissuto per tutta la vita.
Trovo che manchi una cultura dell’accettazione pacifica del “NO” da parte dell’uomo.
Trovo che manchi l’insegnamento all’amore libero e rispettoso senza dover possedere l’altra persona.
Trovo che manchi l’intenzione di invertire una rotta preoccupante che vede le donne uccise, massacrate, stuprate, violentate tra le mura di casa e fuori, senza la possibilità di difendersi realmente.
Trovo infine che manchi l’attenzione sul soggetto principale di tutte queste problematiche: ovvero l’uomo.
Se siamo in presenza di numeri così allarmanti, di comportanti così deplorevoli e di leggi così ingiuste e mal applicate è solo ed esclusivamente perché è l’uomo che rappresenta un pericolo per la donna, e al contempo è lui che fa le leggi.
Non ci dovremmo chiedere dunque come fosse vestita la donna uccisa o stuprata, e nemmeno se fosse ubriaca o sobria. Dovremmo concentrarci su come insegnare all’uomo che una donna vestita in un certo modo (che è un essere libero di vestirsi come più l’aggrada) non è un invito alla violenza né verbale, né fisica. Dovremmo insegnare all’uomo che un rifiuto è puramente un rifiuto e non un valido motivo per essere violento.
Dovremmo in definitiva insegnare all’uomo a non essere più un pericolo per la donna.
Se questa fosse la visione di un paese come l’Italia con un numero così alto di femminicidi, sicuramente nel lungo periodo riusciremmo ad arginare il problema.
Abbiamo visto come focalizzarci sulle donne insegnando loro il modo in cui reagire a certi atteggiamenti sia stato, e sia tutt’ora fallimentare. Credo dunque che sia ora di essere abbastanza coraggiosi da avviare un cambiamento profondo dove, prima di tutto, non ci sia paura di dire che l’unico problema della violenza e degli abusi sulle donne è l’uomo e le radici del maschilismo.
Come spesso si dice, riconoscere il problema è il primo passo per risolverlo.