Le proteste in Cina sono il prezzo da pagare per lo “Zero Covid”

Le proteste in Cina hanno toccato le più grandi città.

Nell’ultima settimana il governo cinese si sta scontrando con un’ondata di proteste che in Cina non si era ancora vista da quando Xi Jinping ha preso il potere.

L’incendio che ha scatenato le proteste in Cina

Giovedì 24 novembre, un incendio a Urumqi ha ucciso 10 persone, e parte dell’opinione pubblica incolpa il governo. Urumqi è la capitale dello Xinjiang, una regione a maggioranza uigura, in cui il governo sta applicando da anni un piano di pulizia etnico-culturale.

La colpa del governo cinese, in questo caso, sarebbe però riconducibile alla sua politica “Zero Covid”. Il governo di Xi Jinping ha applicato questo piano dall’inizio della pandemia. L’obiettivo è quello di limitare al minimo – o meglio a “zero” – la diffusione del coronavirus. Per raggiungere questo obiettivo, sono state adottate misure draconiane. Ovunque si registrino casi di positivi al Covid, le amministrazioni locali sono obbligate a rispondere con quarantene immediate, che alle volte si estendono a interi quartieri, o addirittura città.

È questo il caso della città di Urumqi che, al momento dell’incendio, era in stato di quarantena. Le stesse misure che impediscono l’accesso e l’uscita dalle zone a rischio, avrebbero impedito ai soccorsi di raggiungere velocemente la zona dell’incendio.

La TV di stato cinese, la CCTV, ha affermato come l’incendio sia avvenuto in una zona a “basso rischio”, e che perciò le persone fossero in grado di uscire dal palazzo. L’opinione pubblica, che ormai conosce l’ottusità delle misure imposte da Pechino, è però sicura che la colpa sia da imputare al governo.

Uno strano modo di protestare

Le proteste in Cina assumono forme inusuali per cercare di aggirare la censura del partito comunista. Molte proteste hanno la forma di veglie, per ricordare le vittime dell’incendio di Urumqi. Altri hanno preso in mano fogli bianchi, senza alcuna scritta sopra. Il bianco è il colore del lutto in Cina, ma il foglio vuoto è anche una denuncia alla mancanza di libertà d’espressione nel paese.

Le proteste hanno raggiunto anche le grandi città, e in particolare i campus universitari. Gli studenti delle università di Pechino, Nanchino e Wuhan hanno protestato contro il governo comunista. Questa categoria, quella degli studenti e degli intellettuali, ha giocato un ruolo importante nelle proteste pro-democrazia dell’89 e, perciò, è tenuta d’occhio da Pechino.

La fabbrica di IPhone in rivolta

A Zengzhou, capitale della provincia di Henan, a Sud di Pechino, c’è stata una rivolta in una fabbrica che produce IPhone. Centinaia di lavoratori si sono riuniti per lamentarsi del trattamento subito dall’azienda taiwanese Foxconn. Apple subappalta a Foxconn buona parte della sua produzione.

I lavoratori accusano l’azienda di averli mandati a casa quando sono risultati positivi, e di aver assunto altre persone per prendere il loro posto. L’azienda avrebbe anche promesso bonus ai nuovi arrivati, bonus che però non sarebbero mai stati pagati.

Anche le grandi aziende in questi mesi hanno dovuto avere a che fare con lo “Zero Covid”. Avere un caso positivo tra la forza lavoro comporta il rischio di dover sospendere la produzione. L’economia cinese, che negli ultimi anni si è basata su una forte e costante crescita, dall’inizio della pandemia ha smesso di crescere con lo stesso ritmo.

Le proteste a Shangai

Le proteste più eclatanti si sono tenute a Shangai. Una folla di persone si è riunita per contestare le politiche di Pechino. Per tenere a freno le contestazioni c’è stato bisogno di un ingente numero di poliziotti. La polizia ha fatto anche uso di forza ed effettuato arresti.

A confermare il comportamento violento della polizia c’è la storia di un giornalista della BBC. Edward Lawrence, che stava documentando le proteste a Shangai, è stato picchiato e poi arrestato da alcuni agenti di polizia. Dopo qualche ora, è stato liberato, ma dalle autorità cinesi non sono arrivate scuse.

Nonostante questo clima, una parte dei protestanti ha espresso la propria opinione in maniera inammissibile per gli standard di censura cinesi.

Xi Jinping, dimettiti! Partito comunista cinese, fatti da parte!

Queste affermazioni sono sullo stesso tono di quelle presenti su uno striscione a Pechino pochi giorni prima del XX Congresso del Pcc, tenutosi il mese scorso. Lo striscione era stato appeso su un cavalcavia, in modo che fosse visibile dai passanti, e se la prendeva con la politica “Zero Covid” e con il “traditore” Xi. Tre giorni dopo Xi Jinping si è assicurato il terzo mandato alla guida del paese.

La Cina è in un altro mondo?

Anche in Cina si guardano i mondiali di calcio. Durante le prime partite, gli spettatori cinesi hanno potuto osservare come in Qatar, sede dei mondiali 2022, i tifosi non siano obbligati a mettersi la mascherina e seguire rigide regole di distanziamento. Sui social network cinesi si è conseguentemente aperto un dibattito sulla gestione pandemica cinese e alcuni sono arrivati a chiedersi se la Cina viva in un mondo diverso da quello del Qatar.

La macchina della censura cinese si è subito messa in moto. I commenti in questione sono spariti dai social, e la regia cinese ha deciso di nascondere tutte le immagini che raffigurano il pubblico degli stadi da vicino.

Il Pcc contro il virus

La Cina oggi registra più di 40 mila casi Covid. È il dato più alto dall’inizio della pandemia, e il trend è in crescita. Il resto del mondo, nel frattempo, ha imparato a convivere con il virus, ed è tornato ad una situazione di apparente normalità.

La strategia adottata dalla leadership cinese sta mostrando tutti i suoi limiti, a tre anni dai primi casi registrati a Wuhan. La popolazione cinese ha subito le più grandi privazioni dal punto di vista sociale, e l’opinione pubblica sta facendo sentire il proprio dissenso.

Un modo di leggere la politica interna cinese è rappresentato da un accordo implicito tra l’élite politica, quella economica e la popolazione civile. Il Pcc garantisce al paese crescita economica e stabilità, e in cambio comanda la scena politica.

Le proteste di questi giorni in Cina sono il sintomo di una frustrazione crescente per un partito che non sta tenendo fede alla sua parte dell’accordo.

Mohamed Charjane

Exit mobile version