Un’inchiesta condotta dalla federazione europea per i trasporti e l’ambiente (T&E) ha evidenziato che nel 2023 le raffinerie di Eni hanno beneficiato di importazioni regolari di distillato di acidi grassi di palma (PFAD), disattendendo la promessa fatta dalla multinazionale nel 2020 di eliminare gradualmente l’uso di olio di palma grezzo e dei suoi derivati nella produzione di biocarburanti. Nel seguire la stessa strategia di altri produttori petroliferi, Eni considera il PFAD un residuo della lavorazione industriale dell’olio di palma, escludendo le emissioni dovute alla sua raffinazione dal calcolo generale dei danni ambientali provocati dalla produzione del primo.
Nell’ottobre 2022, la major petrolifera Eni annunciava di aver tenuto fede alla promessa fatta ai suoi azionisti nel 2020, di eliminare l’uso di olio di palma grezzo e dei suoi derivati nelle raffinerie, dimenticando, però, di aggiungere alcuni particolari rilevanti circa le esatte materie prime che avrebbero effettivamente permesso di attuare il graduale phase out, come la possibilità di continuare ad utilizzare il distillato di acido grasso di palma (PFAD), un sottoprodotto derivato dalla produzione dell’olio vegetale.
Sebbene avesse inizialmente espresso la volontà di eliminare definitivamente l’olio di palma e il PFAD dalle sue raffinerie, in realtà la multinazionale fondata da Enrico Mattei ha continuato a beneficiare di importazioni regolari di questo distillato impiegato nella produzione di biocarburanti almeno fino a novembre 2023.
Il dato emerge da un’inchiesta della Federazione europea per i trasporti e l’ambiente (T&E) secondo cui nel 2023 sono state almeno otto le navi cisterna che hanno fatto la spola dall’Indonesia all’Italia trasportando PFAD per essere trasformato in biodiesel. Le informazioni delle ispezioni portuali e i registri commerciali hanno confermato che le navi hanno effettivamente rifornito le raffinerie di Eni con il sottoprodotto della produzione di olio di palma. Il lavoro svolto da T&E è ulteriormente suffragato dai dati di Oil World che evidenziano un balzo del 55% dei volumi di PFAD importati in Italia nel primo semestre del 2023.
Dal suo punto di vista, anche dopo la pubblicazione dell’inchiesta, Eni ha sempre ribadito lo status di azienda “palm oil-free”, limitandosi ad aggiungere che “il PFAD fa attualmente parte del mix di materie prime” impiegato nelle raffinerie per la produzione di biocarburanti, ma tenendo a precisare che viene considerato a tutti gli effetti uno scarto dell’olio di palma grezzo.
La strategia (sbagliata) di Eni per diventare un’azienda “palm-oil free”
La prima menzione di Eni sull’eliminazione dell’olio di palma grezzo e dei suoi derivati nella produzione di biocarburanti in Europa è apparsa all’interno della presentazione del suo “Piano strategico a lungo termine fino al 2050 e Piano d’azione 2020-2023” il 28 febbraio 2020.
In una nota del 2020, Eni annunciava la fine dell’approvvigionamento di olio di palma nelle bioraffinerie di Venezia e Gela “in anticipo rispetto all’obiettivo di diventare palm oil free entro fine 2022”. La decisione era stata presentata dalla societa come un’atto di grande responsabilità e di consapevolezza pubblica per contrastare la deforestazione e l’inquinamento ambientale provocati dalla coltivazione e dall’estrazione del primo olio vegetale per quantità e valore prodotto a livello globale.
In quella occasione, Eni aveva assicurato che la sua “capacità di bioprocesso” sarebbe stata “senza olio di palma entro il 2023“, affermando di voler perseguire, nel medio periodo, un’«espansione della capacità di bioraffinazione (…) fornito esclusivamente con materie prime prive di olio di palma di 2a e 3a generazione“.
La decisione della multinazionale si allineava così alle direttive dettate dall’UE che prevedevano una riduzione dell’uso di olio di palma grezzo e dei suoi derivati dal 2023 per raggiungere l’eliminazione definitiva entro il 2030. Sebbene negli ultimi anni, molti paesi europei hanno completamente rimosso il loro sostegno politico ai biocarburanti derivati dall’olio di palma o hanno classificato il PFAD come sottoprodotto, rendendo di fatto più difficile il suo utilizzo, una piccola parte ha continuato a promuoverne l’utilizzo agevolando le compagnie petrolifere nazionali. È il caso dell’Italia dove il Governo Meloni la pensa diversamente sul PFAD rispetto alla Corte dei Conti Ue, secondo cui “i benefici dei biocarburanti sull’ambiente sono spesso sovrastimati”, e perciò ha deciso di sostenerne ancora la produzione.
Grazie a un emendamento della maggioranza al dl Proroghe, il governo ha infatti prolungato dal 2023 al 2025 gli incentivi alla produzione di biocarburanti a base di olio di palma, lasciando al colosso degli idrocarburi margini di manovra molto più ampi.
A livello europeo, l’Italia è il terzo consumatore di olio di palma grezzo e ha intenzione di sfruttare al meglio al finestra temporale che fino al 2030 consentirà di certificare questo prodotto come ancora “sostenibile”, con l’unico divieto che non arrivi da aree del mondo già devastate dalla deforestazione come la maggior parte dei paesi del Sud-est asiatico dai quali di fatto proviene l’80% dell’olio di palma importato nel vecchio continente.
Segui le navi e troverai il PFAD
L’indagine condotta da T&E sulle navi partite dai paesi asiatici (Indonesia e Malesia) e dirette nei porti di Gela e Venezia suggerisce che Eni abbia continuato a importare frequentemente olio di palma grezzo e PFAD per tutto il 2023. Il rapporto rivela che da gennaio a luglio almeno quattro navi hanno trasportato prodotti a base di olio di palma dall’Indonesia alle raffinerie di Eni: la Blaamanen, la Falcon Sextant, la Eva Fuji e la MTM North Sound.
E ancora, da luglio a novembre altre 3 navi cariche di PFAD (la Rundermanen, la Bochem Brussels e la Rudolf Schulte) hanno percorso la stessa rotta dall’Indonesia attraccando sempre nel porto di Gela, in Sicilia. Inoltre, stando alle informazioni del traffico marittimo globale dell’AIS, i ricercatori di T&E affermano che alcune navi dirette verso le raffinerie di Eni hanno fatto scalo anche nei porti della Malesia, dove potrebbero essere stati effettuati ulteriori carichi di prodotti a base di olio di palma.
I dati emersi dall’inchiesta mostrano ciò che è avvenuto nelle raffinerie di Eni tra il 2022 e il 2023 quando la multinazionale ha ridotto l’uso di olio di palma grezzo, ma in compenso ha aumentato le materie prime “residue” provenienti da paesi asiatici, passando dal 55% al 69%. Sempre nello stesso periodo di tempo, l’86% delle materie prime utilizzate da Eni per i processi di bio-raffinazione negli impianti di Gela e Venezia proveniva da Indonesia e Malesia, si legge ancora nel rapporto di T&E.
Piuttosto che di una riduzione graduale dell’utilizzo di olio di palma, sarebbe quindi più corretto dire che Eni ha optato, senza contravvenire ai regolamenti europei vigenti, per un graduale aumento di materie prime “residue” del prodotto grezzo, facendo scorta di PFAD.
Del resto, lo stratagemma di considerare il PFAD alla voce “rifiuti e residui”, ha permesso alle compagnie petrolifere e ai produttori di biocarburanti di compiere una piccola opera di maquillage, escludendo le emissioni a monte prodotte dalla coltivazione e dall’estrazione dell’olio di palma grezzo, rispetto alla contabilizzazione generale dell’impatto climatico provocato dal PFAD. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta, la multinazionale italiana ha preferito mantenere il riserbo assoluto sulla quantità di ciascuna materia prima e di PFAD utilizzati per sostituire l’olio di palma grezzo, senza smentire o confermare quanto dimostrato dai dati raccolti da T&E.
Tracciabilità e impatto sull’ambiente del PFAD
Il regolamento dell’UE non classifica i biocarburanti prodotti attraverso la raffinazione del PFAD come “avanzati”; questo significa che per la loro raffinazione le aziende petrolifere non ricevono un sostegno preferenziale ai sensi della stessa direttiva dell’UE sulle energie rinnovabili. Tuttavia, diversi stati europei non hanno fatto eccessive pressioni nei confronti dei produttori di biocarburanti per agevolare il phase out del PFAD.
Ciò significa che da qui fino al 2030 – vale a dire per tutto il periodo di transizione – i paesi europei si muoveranno presumibilmente in ordine sparso come spesso accade in Europa anche sul tema dei biocarburanti prodotti con il PFAD. Tuttavia, questo modo di procedere, pone in primo piano la questione della tracciabilità e della provenienza dei carichi di PFAD che dovrebbero essere vietati qualora provengano da società che operano in paesi dove il rischio di deforestazione è una realtà consolidata.
Sebbene esportatori e importatori facciano sempre più affidamento su sistemi di certificazione della sostenibilità, non è possibile eslcudere del tutto i rischi di aver importato prodotti provenienti da aree falcidiate dalla deforestazione. Organi internazionali come l’International Sustainability and Carbon Certification (Iscc), che garantisce la certificazione europea e il RSPO (Round Table on Sustainable Palm Oil) hanno più volte lanciato l’allarme su possibili falle nel sistema dei controlli.
Nel caso specifico di Eni, nel 2022 la multinazionale ha dichiarato di “rintracciare il 100% dei mulini e delle piantagioni da cui proveniva il suo olio di palma destinato alle bioraffinerie di Venezia e Gela” sottolineando che “il 100% dell’olio utilizzato è certificato Iscc”. Ma dai registri doganali visionati da T&E per l’indagine emerge che le filiali che avrebbero rifornito la raffineria italiana di Gela, tra il 2022 e il 2023, appartengono a tre società (Louis Dreyfus, Wilmar e Golden Agri Resources) che trafficano prodotti a base di olio di palma proveniente da mulini nelle aree dell’Indonesia più colpite dalle deforestazioni.
Inoltre, diversi casi di denuncia per deforestazione sono attualmente oggetto di indagine anche per una controllata di Golden Agri Resources, Sinar Mas Agro Resources And Technology (SMART), che nel 2022 ha fornito prodotti a base di olio di palma alla raffineria Eni di Gela. Sempre la stessa società era stata già sanzionata dal RSPO nel 2010 per la violazione dei criteri di sostenibilità dell’organismo, quando un’indagine aveva trovato prove sul disboscamento di intere torbiere e foreste pluviali nel Kalimantan centrale e a Sumatra.
A ulteriore conferma della condotta piuttosto opaca tenuta da queste società nelle aree più povere del pianeta, un rapporto di Greenpeace mostra come tra il 2015 e il 2018 Golden Agri Resources e le sue sussidiarie hanno effettuato massicci incendi boschivi e disboscamenti per fare spazio alle piantagioni di palma da olio, facendo ricorso alla pratica sistematica del land grabbing in Liberia.
Dal 1980 ad oggi la produzione di olio di palma è passata da 4,5 milioni a circa 72 milioni di tonnellate; Indonesia e Malesia sono i maggiori produttori con una quota dell’85% della produzione mondiale. Secondo i dati, la coltivazione della palma da olio è responsabile di meno del 5% della deforestazione totale sul pianeta; tuttavia, in alcune regioni, come il Borneo e Sumatra, le piantagioni hanno divorato circa il 50% di foreste tropicali.
Secondo il dottor Chris Mallins – esperto di politiche a basse emissioni di carbonio e combustibili puliti e consulente per T&E – la situazione è destinata a peggiorare se il PFAD verrà dirottato sistematicamente verso la produzione di biocarburanti. In questo caso, infatti, l’olio di palma continuerà ad essere necessario per il settore della raffinazione e la domanda extra aggraverà ancora la deforestazione.
Contattata da T&E prima della pubblicazione dell’inchiesta, Eni ha preferito non commentare i dati senza peraltro fornire dettagli sui propri fornitori e produttori di olio di palma, alcuni dei quali comparsi nel rapporto della Ong. Ma soprattutto, il colosso degli idrocarburi italiano non è riuscito a dare nemmeno una risposta esaustiva riguardo le proprie capacità di garantire una tracciabilità al 100% del PFAD importato nelle sue raffinerie.
Tommaso Di Caprio