Di Chiara Scolastica Mosciatti
La comunità democratica è la più sostenibile perché è quella che si fonda sull’interdipendenza dei ruoli e delle funzioni e si pone come obiettivo – attraverso i meccanismi di redistribuzione delle ricchezze, bilanciamento delle forze ed accessibilità alle opportunità di sviluppo – la diminuzione della forbice esistente tra le risorse individuali e le richieste socio-ambientali.
La società dei consumi e la comunicazione di massa estesi allo spazio globale, però, hanno messo alla prova il linguaggio democratico, le cui parole chiave nel migliore dei casi scivolano in fenomeni legati all’industria delle mode, mentre nel peggiore si avviluppano all’interno di un vero e proprio significato autonomo, scollegato dalla concatenazione di cause ed effetti del reale.
Relativamente ai concetti molto democratici di etica e sostenibilità, per esempio, si pensi ai negozi di abbigliamento vegano, per cui un abito in poliestere mai smaltibile è più etico di un vestito in cotone; oppure si pensi all’olandesissima cioccolata “Tony’s Chocolonely”, la cui azienda giura e spergiura di produrre combattendo il lavoro sottopagato e ogni forma di sfruttamento, ma che però è capace di rifornire di enormi tavolette di cioccolata in cinquanta gusti diversi, supermercati, negozi vari e bar di mezzo mondo. Chiaramente c’è qualcosa che non torna in questi esempi di etica e di sostenibilità.
La crisi scatenatasi con il Covid-19 ha in brevissimo tempo messo in evidenza come il concetto di sostenibilità, fondamentale per il senso stesso della democrazia, sia stato non solo disatteso, ma anche esautorato. Se è vero come è vero che la parola sostenibilità è tra quelle che ad oggi si sono fatte molto spazio nell’immaginario comune, bisogna ora anche prendere atto della brutta fine che questa parola ha fatto, visti i ripetuti e sempre più frequenti disastri ambientali e l’ormai certa correlazione fra diffusione di un virus che attacca le vie respiratorie e inquinamento atmosferico (chi l’avrebbe mai detto!).
Ora che oltre agli ambientalisti e ai vegani anche il resto del mondo è a conoscenza del fatto che la difficoltà a smaltire gli escrementi degli animali, negli allevamenti intensivi della val padana, ha giocato un ruolo nel numero di morti della zona, dove interverrà lo stato?
Inietterà nel mercato capitali prestati a caro prezzo, per sostenere l’esportazione e il consumo di derivati animali, distribuiti in plastica e prodotti in barba ad ogni sostenibilità?
O ripenserà invece i modelli di produzione?
E nel frattempo che si decide, grandi e piccole imprese di moda e di lusso si riconvertono a produrre vari presidi medico-chirurgico, tipo mascherine e guanti monouso non riciclabili e disinfettanti confezionati in bottigliette di plastica. Nel frattempo una compagnia privata cinese come la Guangxi Yangxiang Co. Ltd, in cima alle sperdute montagne del sud del paese, con i suoi allevamenti iper-intensivi costituiti da palazzoni di tredici piani di stalle, letteralmente produce maiali per sfamare tutti. Poi certo, magari il prosciutto cinese così prodotto non arriva in Italia, però la sua stessa esistenza con le relative criticità finalmente comprensibili a tutti, non aiuta a risolvere il problema delle pandemie, che al momento a livello globale sembra essere quello più urgente.
La Cina però, è il caso di ricordarlo, è un regime autoritario che ha preso come modello di sviluppo un sistema economico basato sul profitto, che in Europa ha fatto meno danni solo perché ci sono dei meccanismi di sostenibilità democratica che ancora funzionano.
A guardar bene, tutta la lingua della quarantena appare invero come un sottoprodotto delle grandi società di profitto. Gli imprenditori hanno letteralmente rubato il vocabolario della democrazia quando questa stava trasformandosi, ovvero quando le sfide della globalizzazione richiedevano ai meccanismi democratici uno sforzo ulteriore per l’ampliamento della sfera pubblica. Questo furto sta avvenendo anche ora che una nuova trasformazione è necessaria. I concetti di appartenenza, comunità, solidarietà, resilienza, nella stagione dell’emergenza sanitaria, sono stati risignificati in senso strettamente imprenditoriale e ad oggi, pandemia e quarantena ci impediscono fisicamente e psichicamente di ignorare ancora certi cortocircuiti di senso.
La proliferazione di disturbi dell’ansia in questo momento ha anche a che fare con l’improvvisa e collettiva visione di quella enorme faccia deformata composta dalle parole democratiche rubate.
Non è la resilienza dei singoli a dover assicurare alla collettività un sereno periodo di sospensione di importanti diritti fondamentali, ma è l’autorità del pubblico, ovvero dello stato, che per motivi di salute collettiva dovrebbe esigere da chi possiede immobili sia l’interruzione degli addebiti relativi ai canoni di affitto che la messa a disposizione dei vani vuoti. Non si può parlare di appartenenza alla stessa comunità perché il mio vicino condivide con me la sua rete internet, affinché anche io possa lavorare in remoto. Si può parlare di appartenenza alla stessa comunità quando le compagnie telefoniche nazionali, durante un’emergenza come questa, distribuiscono capillarmente e gratuitamente dispositivi elettronici e sim dotate del quantitativo di giga necessario affinché tutti, durante la reclusione, possano accedere ai vari servizi disponibili in rete.
Oggi non ci non inganna più Berlusconi, che ha inventato il concetto stesso di successo così come lo abbiamo inteso fino al Covid-19. Se durante una pandemia Berlusconi dona qualche spiccio rispetto al suo patrimonio accumulato attraverso la sottrazione di risorse al fisco pubblico, finalmente oggi anche ai più devoti risulta chiarissimo che questa non è solidarietà. Per una sorta di karma del lessico di propaganda, quello di Berlusconi assomiglia di più a un gesto del cosiddetto buonismo, il quale nel caso del magnate ha anche una grandissima contropartita, ovvero il riconoscimento sociale – al contrario del pagamento delle tasse, che avviene in maniera anonima, costante nel tempo e proporzionalmente alla propria disponibilità.
Tale buonismo ha nel mondo aziendale un termine preciso, ovvero “filantropia”, spesso collegata a fondazioni-costola con grandi libertà di gestione della spesa, che si occupano di reinvestire una minima parte dei profitti delle società di riferimento in attività socialmente o eticamente utili, volte a migliorare l’immagine dell’azienda stessa. In questo processo il privato si sostituisce al pubblico erodendo i meccanismi di redistribuzione delle ricchezze, bilanciamento delle forze ed accessibilità alle opportunità di sviluppo.
Ovviamente, durante una pandemia, in un’area di integrazione economica e politica vasta e variegata come l’Unione Europea, laddove l’imprenditoria privata ha avuto la possibilità di lucrare su settori di interesse collettivo, si creerà una collisione con l’enorme e improrogabile domanda di intervento pubblico. Oggi, scheggia impazzita nella coesione europea, sono i Paesi Bassi, che mettono in gioco la sopravvivenza stessa dell’Unione Europea non per l’erogazione di risorse in sé, che ci sono, ma per questioni di politica aziendale. Con la propria fiscalità estremamente concorrenziale e altamente agevolata per le società di profitto, i Paesi Bassi da un lato sottraggono risorse alla comunità europea e dall’altro si oppongono alle misure di solidarietà necessarie perché questa pandemia non porti al tracollo dell’Unione Europea.
È chiaro che con una crisi di liquidità il rischio che l’Italia corre è di scivolare in una situazione come quella che nel 2015 portò Tsipras a firmare un ulteriore piano di salvataggio, nonostante l’esito del referendum del popolo greco avesse espresso un’opposizione schiacciante a tale misura.
Oltre all’enorme shock di perdita di quella sovranità popolare espressa col referendum, ufficialmente disatteso pochi giorni dopo il suo glorioso esito, il popolo greco subì immediatamente uno stringente regime di controllo del capitale durato fino al settembre del 2019.
Non sono sicura che Conte sia nella posizione di evitare la mostruosa mole di compromessi che dovette affrontare allora Tsipras. Certamente oggi la Germania sembra avere una sensibilità diversa, considerando “l’ammissione di colpa” del ministro degli esteri tedesco Heiko Maas, che l’11 aprile scorso in conferenza stampa ha parlato della necessità di eludere la troika e altre misure di austerità, usate già sulla Grecia come strumenti di “tortura finanziaria”(cit.).
Le fulminee virate autoritarie dell’Ungheria di Orbán e della Slovenia di Janša e l’incendio ai piedi del reattore di Chernobyl chiedono ai politici europei di agire velocemente per ricalibrare tutta l’ecologia di interdipendenza dell’Unione Europea.
La globalità del Covid-19 e la relativa quarantena hanno avuto il grande merito di ristabilire il significato originario di alcuni termini della democrazia e una volta per tutte appianare l’equivoco secondo cui la sicurezza abbia a che fare con l’ordine pubblico invece che con la sanità collettiva.
Adesso a noi cittadini europei è richiesto di abbandonare il placebo dell “Andrà tutto bene”, che in fin dei conti è un gran bel modo per delegittimarci e per toglierci da un qualsivoglia tipo di responsabilità.
Con gli slogan si aumenta il fatturato delle aziende, la democrazia è una faccenda di partecipazione.
Che sia la volta buona che anche la politica torni ad essere sostenibile e pubblica?