Le imprese russe al collasso danno vita all’Impero delle apparenze

imprese russe al collasso

La situazione economica delle imprese russe al collasso è diventata un sintomo emblematico della fragilità economica che affligge la nazione. Tale condizione critica riflette un insieme di sfide strutturali e fattori esterni, tra cui le sanzioni internazionali e le fluttuazioni dei mercati globali. Questo crollo evidenzia la precarietà dell’economia russa, esponendo la vulnerabilità delle imprese a fattori esterni e mettendo in discussione la sostenibilità del modello economico attuale.


Nel contesto della sfera politica russa, Putin persevera nell’illustrare un quadro di un Paese prospero, un’economia in espansione e una sempre maggior autonomia dall’Occidente. L’uso accurato delle statistiche e dei dati, presentato come strumento per favorire la sua imminente riconferma, però, entra in conflitto con una realtà che si discosta nettamente dalla rappresentazione positiva dipinta dalle istituzioni russe.

Il dramma di una Russia malconcia è racchiuso tra le righe dei rapporti finanziari delle grandi imprese, svelati da fonti interne come il giornale Izvestia, notoriamente legato al governo di Mosca. Nei primi sei mesi del 2023, i guadagni delle giganti aziende russe sono scivolati vertiginosamente, passando da 694 a 342 trilioni di rubli. Una caduta libera che porta le imprese russe al collasso e evidenzia la fragilità di un sistema che sembrava intoccabile.

Le analisi delle singole società nel corso dei mesi successivi dipingono un quadro ancor più desolante e parlano di imprese russe al collasso: il colosso del gas Gazprom ha subito un crollo del 36%, la compagnia petrolifera statale Rosneft ha segnato un meno 8%, Lukoil ha accusato una flessione del 12%, mentre Inter RAO, attiva nel settore elettrico, ha riportato un drammatico declino del 43%. Persino il gigante dei fertilizzanti Akron ha subito un -34%. Insomma, le imprese russe al collasso, e nonostante le spiegazioni superficiali degli esperti, le cause profonde di questa debacle economica sono chiaramente riconducibili a un’unica parola: guerra.

Mentre il discorso ufficiale di Putin tenta di distogliere l’attenzione da queste disastrose performance economiche, c’è chi come il consorzio dell’alluminio RusAl ha il coraggio di ammettere che il -16,9% dei propri guadagni è da attribuire alle sanzioni internazionali e ai nuovi dazi imposti dal Cremlino. Tuttavia, questa ammissione si perde tra le proclamazioni trionfali del presidente russo, che vanta una presunta emancipazione dalla dipendenza dai combustibili fossili, sostenendo tassi di crescita industriali vertiginosi e livelli di disoccupazione ridotti al minimo storico, al 2,9%.

Tuttavia, gli osservatori come l’economista d’opposizione Sergey Aleksashenko smontano questa narrativa, sottolineando che ancora un terzo delle entrate russe proviene dalle esportazioni di petrolio e gas. La diminuzione della loro rilevanza nell’economia nazionale è più il risultato delle sanzioni che non di un reale sviluppo industriale. Le vendite di petrolio verso Cina e India, in particolare – causa principale della contrazione dei guadagni di Gazprom – hanno portato profitti ai cofani di Putin, aggirando le restrizioni.

Secondo gli analisti di Meduza, le spese militari russe hanno toccato una cifra record del 4% del PIL, destinato a salire addirittura al 6% nel 2024. L’insieme delle spese legate alla sicurezza nazionale e quelle connesse alla guerra, anche se in modo più indiretto – dalla ricostruzione nei territori ucraini occupati ai risarcimenti alle famiglie dei soldati caduti – assorbono quasi il 40% della spesa pubblica. È l’invasione dell’Ucraina a insufflare vita a industrie obsolete, grazie agli ordini statali, mentre è il conflitto bellico a frenare la disoccupazione e far crescere i salari.

Tuttavia, dietro a questi dati di apparente benessere si cela un’immagine più cupa: oltre un milione e mezzo di russi sono scomparsi dal mercato del lavoro, tra arruolamenti e fuga all’estero, mentre la produttività registra un crollo del -4,1% a causa dell’emigrazione dei talenti più qualificati. Se da un lato i salari crescono, dall’altro aumentano anche i prezzi, portando l’inflazione al 7,5%, quasi il doppio dell’obiettivo del 4% fissato dalla Banca centrale. Il dollaro si avvicina nuovamente ai 100 rubli, mentre la popolazione russa, dimostrando scarso affidamento nell’ottimismo del governo, ha speso a novembre 160 miliardi di rubli per acquistare valuta straniera, raggiungendo quota record simile a febbraio 2022.

Nonostante la guerra dichiarata all’Occidente, i cittadini preferiscono custodire i propri risparmi in valute europee e americane, rifuggendo dalla moneta nazionale. Questi segnali evidenziano una diffusa incertezza e sfiducia nel futuro, e le imprese russe al collasso smentiscono le proiezioni rosee della propaganda ufficiale di Putin e gettando un’ombra di dubbio sul futuro economico del paese.

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