24 ottobre 1917: inizia la battaglia di Caporetto, passata alla storia come la più grande disfatta mai subita dall’esercito italiano. Non tutte le perdite però fanno uguale clamore. Le donne di Caporetto, vittime dimenticate, furono colpite due volte: dalle violenze dei soldati e dal giudizio della società.
Le donne di Caporetto furono le vittime di una guerra combattuta sul corpo femminile, come tante altre prima, e molte altre in seguito. Con la disfatta dell’esercito italiano, nei territori del Nord Est migliaia di donne subirono violenze e aggressioni sessuali da parte dei soldati vincitori, ma anche dei combattenti italiani allo sbando. Lo scontro straripava dai cambi di battaglia e si riversava sulla popolazione civile, smentendo la retorica del patriottismo e il mito della guerra gloriosa. Anche per questo, le violenze subite dalla popolazione femminile furono a lungo tralasciate dalla storiografia nazionale.
Quando, alla fine del conflitto, la Reale commissione di inchiesta produsse una relazione sulle condizioni dei civili, le violenze sessuali furono definite semplicemente “delitti contro l’onore femminile”. In un mondo che concepiva lo stupro come un reato contro la morale, e non contro la persona, il dramma vissuto dalle donne si ridusse a questo: un attentato alla loro virtù. La commissione d’altronde raccolse ben poche denunce: solo 735. La maggior parte delle vittime, di fronte al rischio di vedere ufficialmente compromesso il proprio onore – con tutto quello che ciò comportava – scelse la strada del silenzio.
Una questione di onore
Lo stupro poteva infatti trasformarsi in una macchia indelebile per la reputazione femminile. Secondo il codice Zanardelli, allora in vigore, lo stupro si classificava come un delitto contro il buon costume e l’ordine delle famiglie; e perché fosse riconosciuto, era necessario che la vittima vi fosse stata costretta con la minaccia o la violenza, che avesse provato insomma a difendersi con tutte le sue forze. Il semplice rifiuto non era sufficiente a dimostrare la mancanza di consenso. E un rapporto consenziente con il nemico era un crimine imperdonabile, in un Paese imbevuto di retorica nazionalista.
Il disonore femminile si ripercuoteva ovviamente sull’intera famiglia, e soprattutto sui mariti. Al punto che questi finirono per essere considerati dall’opinione pubblica come le vittime principali dei soprusi, beffati dal soldato nemico che si era approfittato delle loro donne. Il disonore ovviamente cresceva nel caso di un concepimento. Ciò determinò un’altra, straziante conseguenza per le donne di Caporetto: l’obbligo di liberarsi dei figli nati dalla violenza.
I bambini del crimine
Bambini del crimine: questo il nome assegnato ai figli che nacquero dagli stupri di Caporetto. Le madri erano spesso donne sposate, i cui mariti erano stati mandati al fronte, lontani da casa. Al loro ritorno, trovarono le mogli incinte del nemico: un affronto insopportabile.
Fu così che, in un’Italia che stigmatizzava l’aborto come il peggiore dei crimini, la propaganda nazionale arrivò a suggerire alle donne di interrompere la gravidanza, come gesto in difesa della patria. Lo stupro infatti metteva a rischio la purezza della razza: non solo perché generava “bastardi” di sangue straniero, ma anche perché si credeva che portasse a una contaminazione dell’utero, compromettendo così anche la prole futura.
Molte delle donne che portarono a termine la gravidanza furono costrette dalle famiglie a liberarsi quanto prima dei nascituri, che vennero accolti in apposite opere di carità, come il San Filippo Neri di Portogruaro. Fondato nel 1918, l’Istituto ospitò 355 “figli della guerra” provenienti dalle province di Venezia, Treviso, Belluno, Vicenza, Padova e dalla provincia del Friuli; e ben presto aprì la porta anche ai bambini provenienti dalle terre redente, frutto delle violenze perpetrate dai soldati italiani prima della disfatta.
L’istituto nasceva per evitare che i “bambini del crimine” fossero uccisi dai mariti delle donne, o semplicemente lasciati morire d’inedia (la povertà delle famiglie non aiutava). Talvolta i piccoli e le loro madri erano oggetto di scherno e insulti da parte dell’intera comunità. La loro presenza rappresentava per molti il simbolo della sconfitta italiana, dell’oltraggio subito dal nemico; era necessario allontanarli, per dimenticare. Ovviamente, alle madri fu spesso negata qualsiasi libertà di scelta.
La separazione
Negli archivi del San Filippo Neri sono conservate centinaia di richieste di ammissione. I sacerdoti delle comunità svolgevano spesso il ruolo di mediatori tra le famiglie e l’Istituto. Per ottenere il ricovero dei bambini, era necessario spiegare le condizioni del loro concepimento, ossia descrivere lo stupro; l’anonimato era impossibile, e la pratica necessitava della firma del marito.
Con la richiesta di ammissione la madre rinunciava a qualsiasi diritto sul bambino, in modo da facilitare eventuali adozioni. Molte donne tuttavia continuarono per anni a inviare lettere all’Istituto, domandando dei figli e chiedendo un incontro che era vietato dal regolamento. Alcune addirittura si allontanavano dal proprio paese con una scusa, e, senza dire nulla alle famiglie, si presentavano direttamente sul posto, nella speranza di poter vedere i propri figli.
“Più che colpevole, la si deve chiamare disgraziata”
Oltre alle donne sposate, tra le vittime delle violenze vi furono anche giovani e giovanissime. Andrea Falcomer riporta nel suo studio questa testimonianza, tratta dagli archivi dell’Istituto:
“La madre della neonata ha tenuto sempre una condotta morale irreprensibile; quindi, più che colpevole, la si deve chiamare una disgraziata, perché pare sia stata trascinata al peccato con la violenza. Ha appena 15 anni.”
Per la donna, anche se solo quindicenne, le opzioni sono due: colpevole o disgraziata; mai vittima di un crimine; e, per decidere tra le due possibilità, si fa appello alla sua condotta morale, quasi che questa possa avvalorare o meno un’accusa di stupro.
In altri documenti, lo stupro viene designato come “oltraggio”, con riferimento quindi alla virtù, e non alla saluta psicofisica della vittima. La donna che lo subisce è spesso definita “tradita”, termine che lascia trasparire quasi una responsabilità della donna stessa, una sua complicità nel crimine, come un’eccessiva confidenza, che le si sarebbe poi ritorta contro.
In un’Italia distrutta dalla guerra, in cui le vittime si contavano a centinaia di migliaia, il dramma delle donne di Caporetto finì presto per essere dimenticato. La propaganda nazionalista si giovò delle violenze subite dalle popolazioni del Nord Est per incentivare l’odio degli italiani verso il nemico, per fomentare il loro patriottismo. Come era prevedibile, furono opportunamente occultate le aggressioni compiute dai soldati italiani. Il corpo della donna diventava così il simbolo della patria violata, e, in quanto simbolo, perdeva ogni legame con il dolore concreto e reale delle vittime. Un dolore che la società continuò tranquillamente a ignorare.
Elena Brizio