Le chiavi di casa è uscito in libreria l’8 ottobre 2024, a solo un giorno dal primo anniversario dell’attacco di Hamas a Israele. Edito da Mondadori, è l’opera prima del giornalista palestinese Sami Al-Ajrami che non solo riesce a fotografare in maniera lucida l’escalation di un conflitto violentissimo, ma è anche un diario personale di chi la guerra l’ha vissuta e l’ha sentita in ogni vertebra del proprio corpo.
Sami Al-Ajrami è un giornalista palestinese, nato nel Nord di Gaza, precisamente a Jabalia: il più grande campo profughi all’interno della Striscia.
Lavora prevalentemente come freelance, collaborando con diverse testate internazionali, durante la guerra è stato uno dei reporter che per mesi ha documentato e raccontato la brutalità. Difatti è stato l’unico giornalista palestinese a collaborare con la stampa italiana, attraverso la rubrica “Diario da Gaza” pubblicato su Repubblica.
La narrazione inizia con una scelta che sembra essere l’unica possibile ed attuabile nonostante la lucida sofferenza che ne comporta: ad una settimana dall’attacco di Hamas ad Israele, il 13 ottobre, il giornalista decide di chiudere la porta di casa sua a doppia mandata infilandosi le chiavi in tasca, raccomandando ai suoi genitori e alle due figlie di portare con sé solo lo stretto necessario per la sopravvivenza poiché sfolleranno a Sud della Striscia.
Intima loro di non guardarsi più indietro nonostante lui stesso, stringendo quelle chiavi, viene colpito da una vana speranza di poter ritornare un giorno. Ma questo non accadrà perché non resterà quasi nulla di quella casa e Gaza, da lì a poco, verrà completamente rasa al suolo.
Dal momento in cui l’autore decide di fuggire da casa propria, a Jabalia, si assiste ad una lotta continua per la sopravvivenza, si fa sempre più preponderante la paura verso il futuro delle sue figlie fino alla decisione finale di farle fuggire da sole, inconsapevole se un giorno riuscirà a rivederle. L’angoscia per i genitori anziani ed in particolare modo verso il padre, malato da tempo. A fare da sfondo, vi è Gaza che scompare sotto le bombe, giorno dopo giorno, negli occhi della disperazione dei suoi abitanti.
Ma “Le chiavi di casa” non è solo questo, è anche uno statuto di resilienza di un’intera popolazione che prova ad andare avanti da settantacinque anni e che, nonostante abbia perso tutto, riesce a ritagliarsi piccoli attimi di normalità celebrando il capodanno e il Ramadan o, nel caso di Sami Al-Ajrami, quando le figlie decidono di preparargli a sorpresa una torta per il suo cinquantasettesimo compleanno.
«Avrei scommesso che il 14 febbraio 2024, mio cinquantasettesimo compleanno, sarebbe stato il più triste di tutti. Invece a cena mi presentano una piccola torta fatta in casa con dentro pezzetti di cioccolata che chissà come si sono procurate. Non me lo aspettavo e mi emoziono. Piango. È un momento di normalità surreale: attorno a me ci sono le mie figlie e gli amici che cantano “tanti auguri”, come fossimo a casa nostra, nella vecchia vita, in tempo di pace».
L’autore adotta un linguaggio diretto riuscendo a far rivivere al lettore, attraverso le sue parole, l’orrore disumano vissuto da milioni di palestinesi e da lui stesso in prima persona. È come se le parole fuoriuscissero dalle pagine, prendessero vita sotto forma di fotografie estremamente nitide ed ecco dunque che si inizia a percepire la paura di tutte quelle persone che temono una nuova Nakba, ossia la catastrofe che nel 1948 spinse i palestinesi a fuggire, a seguito dei combattimenti con gli israeliani.
Ci si smaterializza e si riescono a vedere le bombe che cadono con estrema violenza, indistinte, su ogni cosa e su ogni persona, soprattutto sugli ospedali e sui bambini. Si riesce a sentire l’odore nauseabondo dei corpi ammassati gli uni sugli altri, di intere famiglie sterminate, di numerosi palazzi che crollano come se fossero costruiti di cartapesta.
«Chiedo a tutti: vuoi restare o andare? Prima rispondevano di voler morire qui, a casa propria. Ora i più hanno cambiato idea. È una morte troppo lenta e senza dignità».
Questo libro è un documento molto forte che attesta la realtà inumana e tragica della guerra, il giornalista si fa portavoce dei suoi connazionali: delle paure, dei pensieri, della speranza e della rassegnazione ad un destino che sembra essere già scritto. Di una straziante anormalità che, con il passare del tempo, diventa quotidianità: corpi indeboliti da infezioni e malattie, privati di beni essenziali quali cibo ed acqua, costretti a ripararsi in tende sovraffollate.
Infatti, il libro è scandito in mesi in particolare da ottobre ad aprile in cui, pagina dopo pagina, si assiste nuovamente all’escalation di violenza raccontata e vissuta in prima persona.
«Guariranno dalle malattie, il loro corpo continuerà a funzionare. Ma come faranno a guarire dalla ferite che questa guerra sta provocando alle loro menti e ai loro cuori?».
Il libro si conclude così come si apre: con un’altra decisione sofferta ma inevitabile. Il reporter capisce di essere diventato un bersaglio essendo giornalista dunque decide di lasciare Gaza e andare a vivere da solo in Egitto, lasciando alle sue spalle senza mai dimenticarli i genitori, fratelli, sorelle, colleghi ed amici. Per tutto il tempo ha avuto con sé in tasca le chiavi della sua auto e della sua casa a Jabalia ma, a quel punto, capisce che non aprono più nulla, nulla di ciò che amava è sopravvissuto poiché Gaza con le sue strade e persone, ormai vive solo nei suoi ricordi e, se anche un giorno la guerra finisse e volesse ritornare, ricostruire tutto sarebbe quasi impossibile.
Le chiavi sono il leitmotiv di quest’opera, un fil rouge che collega il destino del protagonista con quello del popolo palestinese dato che entrambi hanno perso tutto. Se da un lato quelle chiavi non possono più essere inserite in nessuna serratura, dall’altro restituiscono un’immagine simbolica estremamente potente di chi non può e non vuole dimenticare la propria terra natia ed ha l’urgenza di far conoscere a tutto il mondo settantacinque anni di storia, di combattimenti e sconfitte. È in questo che Sami Al-Ajrami si fa portavoce non solo di se stesso ma di tutti i palestinesi, riuscendo a rendere visibile e tangibile il nemico, la sofferenza, l’umanità ma, soprattutto, un’intera popolazione che nel resto del mondo è costantemente non-vista.