Le (solite) ambiguità di Erdogan: difende i palestinesi, bombarda i curdi e tratta con Assad

Ankara continua a commerciare con Israele attraverso la Grecia nonostante il blocco delle esportazioni. Funzionari turchi e siriani potrebbero incontrarsi a Baghdad con la mediazione dell'Iraq. Il sultano pronto all'escalation nel Kurdistan iracheno.

Il leader turco si è autoproclamato difensore dei palestinesi a Gaza ma non ha mai smesso di commerciare davvero con Israele. E adesso Ankara tende una mano al regime siriano di Assad mentre prepara l’escalation nel Kurdistan iracheno.

Chiunque abbia prestato attenzione alle dichiarazioni del presidente turco Recep Tayyip Erdogan dopo i massacri compiuti da Hamas il 7 ottobre e la successiva campagna militare israeliana a Gaza, deve avere avuto l’impressione che Ankara fosse in prima linea tra le nazioni che si oppongono a Israele e difendono la causa palestinese.

Pochi leader al mondo sono in grado di trascinare le folle facendo leva su una retorica tagliante come quella sfoggiata dal ras turco nel denunciare le “scelte criminali” dell’amministrazione di Benjamin Netanyahu a Gaza e l’atteggiamento equivoco dell’Occidente, corresponsabile con le sue “politiche ipocrite”, del massacro dei civili palestinesi. 

Tuttavia, in questi mesi di caos in Medio Oriente, a dettare la linea nelle relazioni tra Israele e la Turchia,  non sono stati gli audaci proclami e le minacce incendiarie arrivate da Ankara, a parole disposta persino a interrompere i rapporti con lo “stato terrorista” sionista, quanto piuttosto le ponderate ambiguità di Erdogan, interessato a trarre vantaggi dalle nuove dinamiche regionali innescatesi con il pogrom di Hamas.

Se, infatti, la Striscia di Gaza è diventata momentaneamente il centro del mondo, per Erdogan la tragedia umana del popolo palestinese è anche il simbolo del collasso dell’ordine globale guidato dagli stessi paesi occidentali che sostengono Israele e con i quali Ankara condivide l’appartenenza alla NATO. Mosso da questa certezza e consapevole dei benefici che potrebbe ottenere da un cambiamento politico interno in Israele, coincidente con la fine della carriera politica di Netanyahu, in questi mesi il presidente turco ha strategicamente concentrato i suoi attacchi  sul premier israeliano, senza stravolgere le relazioni commerciali con Tel Aviv. 

La retorica di Erdogan alla prova del realismo

La posizione della Turchia nell’attuale scenario della guerra a Gaza risente di una complessa interazione di fattori interni ed esterni che hanno influenzato la linea politica estera del paese anatolico in questi mesi.

Tra gli elementi in grado di incidere nelle relazioni tra Turchia e Israele ve ne sono tre particolarmente rilevanti: l’impennata del nazionalismo turco, l’impatto delle dinamiche di potere globali (con il coinvolgimento di Stati Uniti, Cina e Russia) sulla regione dell’Asia occidentale, e infine il rapporto burrascoso tra Erdogan e l’Occidente,  improntato sul raggiungimento dell’indipendenza strategica da parte di Ankara. Per questa ragione, non sempre l’alta retorica del presidente turco ha prodotto decisioni irrevocabili nei confronti dello stato ebraico.

Si pensi, ad esempio alla sospensione di tutte le operazioni di esportazione e importazione verso Israele annunciata a maggio da Erdoğan per fare pressione su Tel Aviv affinché dichiari un cessate il fuoco a Gaza; sebbene presentata come definitiva e ineluttabile, la misura restrittiva adottata da Ankara non ha impedito alla Turchia di continuare ad esportare gas e petrolio verso Israele tramite Paesi terzi come la Grecia.


A rivelarlo è stato il Middle East Eye che ha visionato i dati dell’Ufficio Centrale di Statistica israeliano (CBS), dai quali è emerso che Israele ha importato merci dalla Turchia per un valore di 116 milioni di dollari a maggio, segnando un calo del 69% rispetto ai 377 milioni di dollari dello stesso mese dell’anno scorso. Eppure, i dati del CBS sono in controtendenza rispetto alla fotografia fornita dall’Assemblea degli esportatori turchi (TIM) che ha registrato soltanto 4 milioni di dollari di merci esportate in Israele a maggio, con un calo di oltre il 99% rispetto all’anno precedente.

Erdogan
Il traghetto ‘Smyrna di Levante’ ha lanciato il servizio tra la città portuale greca di Salonicco e la città turca di Izmir, nella prima linea di navigazione diretta tra i due paesi, il 10 ottobre 2023.

Per sciogliere il dilemma basta dare uno sguardo all’impennata delle spedizioni dirette turche verso la Grecia, prendendo come riferimento sempre i dati elaborati dalla TIM. A maggio 2024 le esportazioni della Turchia verso i porti greci sono salite a 375 milioni di dollari con aumento del 71% rispetto ai 219 milioni di dollari dello stesso mese dell’anno scorso.

Le aziende turche hanno deciso di continuare a esportare merci verso Israele attraverso la penisola ellenica, scelta per la sua posizione di snodo commerciale al centro del mediterraneo oltre che per le sue opzioni di spedizione relativamente più economiche verso lo stato ebraico.

Pur di non rinunciare al perseguimento dei propri interessi strategici con Tel Aviv, Erdogan ha quindi incentivato una forma di commercio parallelo tra i due paesi. Anche perché il mantenimento delle relazioni tra Turchia e Israele risponde ad una precisa ambizione del leader turco: rendere lo stato anatolico un hub vitale per il transito dell’energia dall’Asia occidentale all’Europa. 

Erdogan solidale con i palestinesi mentre spinge per l’escalation nel Kurdistan iracheno

La solidarietà della Turchia alla popolazione di Gaza e il riconoscimento da parte del suo presidente del diritto all’autodifesa di Hamas contro l’occupazione israeliana,  hanno reso il paese anatolico il secondo attore internazionale – dopo l’Iran, nemico numero uno di Tel Aviv nella regione – a schierarsi in modo inequivocabile dalla parte della resistenza armata palestinese.

La scelta di campo di Erdogan su Hamas è uno dei principali nervi scoperti nella disputa turco-israeliana iniziata nel lontano 2009 dopo il consolidarsi della nuova posizione assunta dalla fazione islamista nella Striscia di Gaza con la vittoria delle elezioni del 2006.

Quando il 27 dicembre 2008 Israele lanciò una campagna di massicci bombardamenti sull’enclave palestinese, soprannominata “Operazione piombo fuso”, la reazione di Ankara fu immediata. In una memorabile riunione del panel durante il forum economico di Davos, Erdoğan si scagliò contro l’allora presidente israeliano Shimon Pérès; da quel momento, il nuovo governo turco tentò in ogni modo di rendere Hamas un partner ufficiale nei negoziati con Tel Aviv.

Oggi, a distanza di quindici anni da quegli eventi, il leader turco ha sostanzialmente ripreso da dove aveva lasciato; ha attaccato Netanyahu per le sue “azioni criminali” a Gaza e per il mancato riconoscimento dei confini della Palestina mentre ha spalancato le braccia al leader del movimento responsabile dell’attacco del 7 ottobre, Ismāʿīl Haniyeh, ricevuto nella storica residenza di Dolmabahçe a Istanbul.

Ma coperto dal clamore mediatico della guerra a Gaza, Erdogan ha soprattutto portato avanti la propria agenda di politica estera nella regione con interventi armati diretti in Siria e in Iraq, bombardando le forze di difesa curde. Negli ultimi giorni, la Turchia ha intensificato l’escalation dei combattimenti nelle regioni del Kurdistan iracheno con il pretesto di combattere i guerriglieri del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK). I recenti attacchi dell’esercito turco si sono concentrati sulla catena montuosa di Matina con l’obiettivo di prendere il controllo delle basi del PKK e avanzare verso ovest attraverso le montagne. Se l’offensiva di Ankara avrà successo il governo regionale del Kurdistan potrebbe perdere il controllo di 75% del suo territorio.

Il 26 giugno l’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK) ha rilasciato una dichiarazione nella quale ha evidenziato le preoccupazioni per le operazioni militari turche nella regione, lanciando l’allarme sulla possibilità che l’occupazione progettata da Erdogan rischia di diventare permanente sino all’annessione dei territori. 

In questo caotico scenario regionale vanno interpretati anche i segnali di apertura lanciati da Erdogan al regime siriano di Bashar al-Assad. La Turchia ospita attualmente 3,1 milioni di rifugiati siriani, secondo i dati ufficiali. Un possibile riavvicinamento tra i due paesi confinanti vedrebbe il ritorno sicuro di questi rifugiati in patria. Ma in cambio il leader turco spera di poter strappare a Damasco il supporto nella lotta contro le Unità di Protezione Popolare (YGP), una milizia presente nelle regioni a maggioranza curda nel nord della Siria, considerata da Ankara un gruppo terroristico strettamente legato al PKK.

Le ragioni dietro al disgelo tra Ankara e Damasco

Il 28 giugno Erdogan ha dichiarato di non escludere un possibile incontro con il leader siriano Assad per ripristinare le relazioni bilaterali tra i due Paesi, accogliendo positivamente i segnali di apertura lanciati nelle scorse settimane dal leader siriano.

Da quando nel 2011 ha interrotto tutti i legami con il regime di Damasco, Ankara si è impegnata a sostenere gli oppositori del regime di Assad, il quale è riuscito, però, a conservare il potere grazie al supporto militare e politico della Russia.

Il premier Erdogan incontra il presidente siriano Bashar al-Asad, Aleppo, 6 febbraio 2011 (Reuters Photo)

Dopo il 7 ottobre, entrambi i Paesi hanno cercato di consolidare le rispettive posizioni in seguito al terremoto politico e strategico che ha sconvolto il Medio Oriente, riconsiderando le linee rosse per le preoccupazioni di sicurezza interna. Cogliendo i segnali di apertura arrivati da Damasco, da parte sua Erdogan spera di negoziare con Assad un accordo sul terreno comune della lotta contro il PKK. Ma l’accordo tra i due Paesi è tutt’altro che scontato.

Difficilmente il regime siriano ritirerà il proprio supporto alle YPG, utilizzate in questi anni proprio in funzione anti-turca. Inoltre, nelle ultime settimane la situazione al confine con la Turchia è diventata estremamente tesa. Nel pomeriggio del 1 luglio la popolazione delle città di  Bab, Azaz e Afrin, occupate dall’esercito turco, è scesa in piazza per protestare  in risposta agli episodi di razzismo subiti dai siriani presenti in Turchia e alla notizia di un possibile disgelo tra Ankara e Damasco. In alcuni filmati sono stati ripresi i manifestanti che abbattono la bandiera turca da un edificio del registro civile turco nella città di Azaz.

A seguito dei disordini provocati dai cittadini siriani in Turchia, l’amministrazione di Ankara ha deciso di chiudere i valichi di frontiera di Bab Al-Salamah, Al-Rai, e Jarabulus che connettono i due Paesi. Anche sul versante siriano, il regime di Assad ha chiuso il confine di Bab Al-Hawa, la più importante arteria che connette Damasco con la Turchia, per ragioni di sicurezza nazionale.

Tommaso Di Caprio

 

 

 

 

 

 

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