Le 10 peggiori guerre in cui essere un bambino. Zone di conflitto, aiuti umanitari ed effetto CNN

Zone di conflitto

“Stop the war on children”, fermate la guerra sui bambini. Con questa campagna, Save the Children riporta periodicamente i dati sui conflitti nel mondo. L’ultimo report, divulgato in Italia la scorsa settimana, è il settimo della campagna e riflette una situazione drammatica. 449 milioni di bambini vivono in zone di conflitto e 230 milioni in zone di conflitto ad alta intensità (cioè luoghi in cui si registrano più di 1000 decessi all’anno a causa delle guerre).

La classifica delle peggiori zone di conflitto nel mondo

Sulla base di nove indicatori, l’organizzazione ha stilato la classifica dei “10 peggiori conflitti in cui essere un bambino”. I Paesi che li ospitano sono: Yemen, Afghanistan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia, Siria, Mali, Repubblica Centrafricana, Nigeria, Burkina Faso e, infine, Myanmar.

Non deve stupire l’assenza dell’Ucraina, i dati, infatti, tracciano il quadro del 2021. Questa guerra, scoppiata nel 2022, rientrerà, con ogni probabilità, nel prossimo report assieme a quelle esplose in Mozambico ed Etiopia.

Gli indicatori

La classifica di Save the Children si basa su 9 parametri. I primi 3 valutano:

  1. Il grado di intensità del conflitto.
  2. Il numero totale dei bambini che vivono nel Paese coinvolto dalla guerra.
  3. La percentuale di bambini che vivono nelle zone di conflitto rispetto al totale della popolazione infantile dello Stato considerato.

A questi si aggiungono poi i dati relativi alle 6 gravi violazioni dei diritti subite dai bambini. In particolare riguardano:

  1. Uccisioni e mutilazioni: nel 2021, ogni giorno circa 22 bambini sono rimasti uccisi o gravemente feriti a causa dei conflitti. Le aree con la maggior incidenza sono Afghanistan, Palestina, Siria e Yemen. In molti luoghi, peraltro, il dato è in calo nonostante il numero delle aree in conflitto sia sempre più alto. Questo paradosso è probabilmente dovuto al fatto che è quasi impossibile raccogliere dati completi ed esaurienti.

Due dei miei bambini sono rimasti uccisi in un’esplosione e altri due sono stati feriti. Ho sentito l’esplosione, non capivo cosa stesse succedendo. Quando ho iniziato a urlare alcune persone sono venute ad aiutarmi e hanno portato tutti e quattro i bambini in ospedale.

Farah, Afghanistan.

  1. Rapimento: fenomeno ovviamente seguito da altri tipi di violazione come il reclutamento o le violenze sessuali.
  2. Reclutamento e sfruttamento da parte di esercito o gruppi armati: soprattutto in Congo, Siria e Somalia.

Stavamo nuotando nel fiume quando sono arrivati e ci hanno portati nella foresta. Ci hanno torturati e ci hanno insegnato a uccidere e a rapire altre persone. Abbiamo sofferto molto. Eravamo tanti bambini e molti di noi sono rimasti nel gruppo armato. Da quando sono stato salvato vengo trattato in modo diverso. I genitori degli altri bambini sono spaventati e non mi lasciano giocare con loro perché sono stato in un gruppo armato.

Jean, 16 anni, Repubblica Democratica del Congo.

  1. Attacchi a scuole e ospedali: soprattutto in Palestina, Mali, Afghanistan e Yemen, mentre (piccola nota positiva) Siria e Somalia sono migliorate rispetto all’anno precedente.
  2. Negazione degli accessi umanitari: soprattutto in Yemen, Palestina e Mali.
  3. Stupri e violenze sessuali: al cui interno sono considerati stupri, stupri di gruppo, schiavitù sessuale, prostituzione forzata, gravidanze forzate, aborti forzati, sterilizzazione forzata, mutilazioni genitali, abusi sessuali, torture sessuali. Tali violenze riguardano per il 98% le bambine e il dato è decisamente sottostimato. “Molte ragazze”, infatti, afferma Save the Children “non denunciano gli abusi subiti a causa di molteplici motivazioni: alla base vi è però il sentimento di vergogna dovute all’idea di purezza e integrità infranta”.

Gli abusi inoltre si differenziano per genere: i bambini sono più soggetti a reclutamento, le bambine a sfruttamento sessuale.

In ogni caso, “il problema principale è che i dati sono gravemente sottostimati e quelli accertati sono solo la punta dell’iceberg” afferma Save the Children.

Il ruolo dei media nella distribuzione degli aiuti umanitari

Ci chiediamo, ad esempio, perché arrivino sulle coste italiane così tanti Afgani, Siriani e Palestinesi e sentiamo insensibili parole sul fatto che non debbano mettersi in mare, che una madre per amore dei suoi figli non dovrebbe intraprendere un viaggio così pericoloso, che se decidono di mettersi in viaggio devono tenere in conto la possibilità di non arrivare vivi a destinazione. Eppure quanti di noi sanno qualcosa delle guerre che affliggono i loro Paesi e di tutte le altre zone di conflitto sulle quali si tace?

Parte della responsabilità può essere attribuita ai media e a come e quanto questi si occupino di guerre che sono geopoliticamente poco rilevanti. Quantomeno agli occhi di noi occidentali. Eppure, come denuncia Save the Children, le guerre nel mondo sono numerose e tutte meritano un’adeguata copertura. Mediatica e umanitaria.

Si parla di “effetto CNN”, una teoria che assegna ai media un’importanza fondamentale nel determinare le decisioni politiche e, di conseguenza, anche la distribuzione degli aiuti umanitari. Ovviamente non è l’unico fattore di influenza. Tra gli altri ci sono gli interessi geopolitici, le leggi internazionali, la prossimità dei donatori al conflitto, la storia coloniale dei Paesi coinvolti e altri.

Nell’ultimo anno (2022) la guerra in Ucraina ha letteralmente riempito lo spazio mediatico dedicato al racconto dei conflitti. Infatti ha ricevuto una copertura di cinque volte superiore rispetto alla copertura mediatica di tutti gli altri 10 Paesi della classifica messi in insieme. La guerra in Yemen, ad esempio, ha ricevuto solo il 2,3% della copertura mediatica dedicata, invece, all’Ucraina.

Secondo Save the Children, la guerra di Putin ha dimostrato che è possibile trovare abbastanza fondi per tutti e che è possibile raccoglierli velocemente e indirizzarli là dove servono.

Normalmente avviene che i governi debbano fare una scelta su chi aiutare siccome “si racconta” che le risorse non siano sufficienti per tutti.

“Tuttavia, la capacità della comunità internazionale di unirsi collettivamente per garantire finanziamenti rapidi ed efficaci è stata dimostrata dal sostegno per l’Ucraina”.

Quindi è possibile applicare ciò che si sta facendo in Ucraina anche in tutte le altre zone di conflitto del mondo, con l’aiuto, s’intende, dei media e della volontà. L’obiettivo ovviamente è quello di distribuire equamente gli aiuti umanitari a tutti coloro che ne hanno bisogno e lo si può fare anche rendendo visibili le guerre di cui non si sente parlare.

Arianna Ferioli

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